Brand reputation o web reputation? Il caso La Stampa
Brand in Italy
Brand reputation o web reputation? Il caso La Stampa
08/04/2013

Carlo Simonetti, Direttore Creativo, Guest di Brandforum.it
Se come diceva Edward Buffett “ci vogliono vent’anni per costruirsi una reputazione e cinque minuti per perderla” nell’era dei social network il rischio di compromettere la reputazione di una marca si moltiplica esponenzialmente ogni minuto che passa.
(Per gentile concessione mensile Espansione)

Se come diceva Edward Buffett “ci vogliono vent’anni per costruirsi una reputazione e cinque minuti per perderla” nell’era dei social network il rischio di compromettere la reputazione di una marca si moltiplica esponenzialmente ogni minuto che passa.

 

Ogni commento potrebbe essere quello fatale. Sono rari, rarissimi, i brand italiani che riescono ad utilizzare in modo disinvolto i social network. I più si muovono goffamente incespicando tra l’emulazione di eclatanti case-history americane e inglesi o parodiando linguaggi e codici che conoscono appena. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: non ci sono risultati. O se ci sono, e non sono gonfiati, sono molto spesso irrilevanti per chiunque non faccia parte del cerchio ristretto dell’azienda e delle sue agenzie.

 

Si resta nel placido grembo dell’autoreferenzialità: l’AD è contento, i PM sono contenti, l’agenzia se la tira. Ma non è successo niente. Tanti click, tante impression, tanti mi piace. Di prodotti se ne vendono esattamente come prima, nemmeno uno in più.

 

Sì, però la rilevanza del brand e la sua brand reputation sono cresciute. Ma davvero? E se avesse ragione Kotler sostenendo che “l’Italia ha dimenticato il marketing” per gettarsi a corpo morto sul socialnetworking? E se si dovesse ripartire dalla qualità reale del prodotto o del servizio prima di lanciarsi in operazioni di immagine che incrementano il buzz in ogni direzione senza alcuna ricaduta concreta e tangibile?

“Purché se ne parli” può andare bene per la starlette o per il politico di turno. “Purché se ne parli bene” è ciò che davvero conta per il mercato.

 

 

Il caso La Stampa


Un grande quotidiano nazionale con un forte radicamento locale che esiste dal 1867 gode di una indiscutibile legittimità derivante da un’infinità di fattori. I principali sono naturalmente quelli guadagnati attraverso l’accumulazione di credibilità e di affidabilità. La straordinaria coerenza sia nello stile, sia nell’equilibrio, che hanno consentito al giornale di conservare intatta la propria identità attraverso le mutazioni storiche attraversate dal Paese. Ma la testata ha iniziato a percepirsi come brand, solo in tempi molto recenti.

 

Questo nuovo ruolo e questa responsabilità hanno imposto una revisione della comunicazione commerciale in un’ottica di adeguamento di quelle che un tempo erano operazioni estemporanee ed episodiche (promozione di collane, raccolte, campagne abbonamenti, eventi, annunci istituzionali), in un’attività di comunicazione organica e coordinata che ripartisse da quei valori di autenticità e di identificabilità della fonte.

 

Un grande quotidiano oggi è qualcosa di più di un semplice aggregatore/erogatore di notizie. È una piattaforma da cui partono stimoli, iniziative culturali e commerciali, provocazioni. È uno spazio che può ospitare analisi, commenti, indicazioni politiche e di costume. Vive e produce utili grazie alla sua capacità di fornire informazioni affidabili, commenti graffianti, analisi approfondite e circostanziate, punti di vista autorevoli.

 

Ma non solo. Deve produrre contenuti condivisibili, deve presentare continuamente e costantemente iniziative appetibili ai tanti e diversi target che hanno scelto la testata o che la sceglieranno. Senza dimenticare il suo ruolo di vetrina prestigiosa per gli inserzionisti. La sua reputazione è tutto.

 

La nostra agenzia ricevette l’incarico di rivedere la brand architecture e rimodulare tono e atmosfera della comunicazione commerciale de La Stampa poco più di un anno fa. Si partiva da una situazione abbastanza ovvia e prevedibile. Una pletora di progetti di comunicazione, ognuno con i propri stilemi, affidati ad agenzie di pubblicità diverse senza alcun coordinamento e senza alcun legame dichiarato con il brand che non fosse la semplice presenza del logo La Stampa.

Si trattava quindi di azzerare tutto. Mettere a fuoco “cosa” fosse un giornale: la sua fisicità, la sua apparenza, il suo essere, prima ancora che la sua identità.

 

La ricerca creativa ha immediatamente prodotto gabbie grafiche di differenti quanto ingiustificate forme, abbinamenti di colori, ricerche di lettering fin troppo congrui e coerenti. Fino al momento in cui si è optato per l’unica via percorribile: quella della sottrazione. Eliminate le cornici, i filetti grafici e le gabbie si è spogliato il format pubblicitario di tutto tranne che della sua essenza: la pagina. Il foglio, nella sua purezza e semplicità, sarebbe diventato il supporto di ogni comunicazione pubblicitaria, dalle campagne multisoggetto ai semplici singoli annunci.

La pagina bianca, la pagina pronta ad essere “scritta e stampata” sarebbe diventata il segno distintivo de La Stampa. Il simbolo visivo dell’essenza del giornale, su carta, su web o su qualsiasi altro dispositivo.

 


A questo punto andava definito un linguaggio. Un codice di comunicazione che si adattasse all’eterogeneità dell’offerta e che permettesse attraverso la pubblicizzazione dei singoli prodotti di mantenere e reiterare quei valori di concretezza, immediatezza e semplicità tipici della testata. 


Da un punto di vista creativo, scegliendo la strada del “keep it simple”, tutto si faceva più difficile. Per chi è abituato a lavorare di metafore e di altre figure retoriche, decidere di utilizzare un linguaggio verbale e visivo diretto, in cui il singolo prodotto fosse l’unico protagonista a parlare, non era la cosa più immediata. Ma si è rivelato possibile adottando, anche per queste necessità, il rigore dell’understatement: il fondo bianco della pagina, il prodotto, il titolo e le informazioni essenziali. Questa scelta si rivelava inoltre la più idonea e sostenibile, in tempi di contenimento delle spese, non prevedendo soluzioni con illustrazioni particolari o riprese fotografiche complesse.

 


Era inoltre necessario creare una linea grafica che firmasse le aree di competenza dei prodotti e dei servizi. Sono stati perciò progettati e disegnati dei nuovi logotipi per identificare e distinguere i prodotti digitali da quelli carta, i prodotti acquistabili in edicola e quelli da comprare online, i servizi agli abbonati e ai lettori. Tutte attività che contribuendo a costruire quel complesso edificio che è la brand identity avrebbero permesso alla brand reputation di esprimersi. Di esprimersi attraverso la qualità del prodotto: attraverso il lavoro quotidiano dei suoi giornalisti sul web, sui social, sulle pagine del giornale.

Oggi la comunicazione pubblicitaria e istituzionale de La Stampa è immediatamente riconoscibile e ascrivibile al brand, dialoga con i lettori delle sue edizioni web, mobile e carta con il linguaggio semplice e discreto tipico di una certa “torinesità”. Quell’atteggiamento un po’ incredulo e sorpreso che dubita prima di ogni altra cosa. Analizza, verifica, riflette. E solo dopo parla. E con grande stile, scrive.
 

 

Si ringrazia l'Autore e l’editore del mensile Espansione (n. di marzo 2013) per aver gentilmente concesso la ripubblicazione del pezzo.

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Carlo Simonetti. Direttore Creativo e Titolare Simonetti Studio

 


 

A cura di

Carlo Simonetti

Direttore Creativo e Titolare Simonetti Studio

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