Essere brand, fra disincanto e «ipermedialità»
Brand in Italy
Essere brand, fra disincanto e «ipermedialità»
14/06/2012

Aldo Grasso, Guest di Brandforum.it
Cosa signifca «Essere brand» oggi? Un termine che ha iniziato ad assumere significati nuovi, esito di trasformazioni che riguardano non soltanto il sistema mediale e le funzioni della comunicazione, ma anche, più ampiamente, le forme della socialità e la cultura che produciamo e che ci circonda.

A un anno dall'uscita del volume Brand Reloading (a cura di P. Musso, edito da FrancoAngeli), pubblichiamo alcune riflessioni del Prof. Aldo Grasso, Professore Ordinario di Storia della radio e della televisione (Università Cattolica di Milano) sul branding e sui suoi legami con la cultura contemporanea presenti nella Prefazione.

 

Come si fa a «essere brand» oggi?

 

Detta così, la frase sembra presa a prestito da «Mad Men», la stupenda serie americana che racconta i fasti della pubblicità. In realtà, la domanda è più che pertinente. La teoria e la pratica del branding ha edificato, negli anni, un sapere ampio e articolato sui temi della comunicazione di marca, catalizzando conoscenze dalle diverse discipline che hanno, di volta in volta, fornito strumenti e spunti: le teorie della comunicazione, la semiotica, il marketing, la ricerca sui consumi, l’economia aziendale, la storia dei media e quella della pubblicità…

 

Questa conoscenza si trova oggi a mettersi alla prova con una realtà che sembra mutare a ritmi imprevisti. «Essere brand», in particolare, ha iniziato ad assumere significati nuovi, esito di trasformazioni che riguardano non soltanto il sistema mediale e le funzioni della comunicazione, ma anche, più ampiamente, le forme della socialità e la cultura che produciamo e che ci circonda. Dunque, anche quel complesso di saperi – insieme teorici e pratici – relativi all’universo delle marche richiede un aggiornamento o, per usare l’espressione che dà il titolo al volume, un reloading.


Il contesto culturale emerso nei paesi industrializzati dopo la conclusione del «secolo breve» ha trovato diverse etichettature teoriche. Si è sottolineato il progressivo indebolimento delle istituzioni nate con la Modernità e gli Stati nazionali e la «liquidità» delle nuove forme di socialità, soggette alla variabilità e alla precarietà di un tempo sempre più accelerato; si sono ricordate le conseguenze della «globalizzazione», sia nei termini dell’accorciamento delle distanze, dell’avvicinamento e dell’ibridazione delle culture, sia in quelli, solo apparentemente contraddittori, della rinascita di nazionalismi, localismi, «territorialismi»; si è evidenziato l’emergere di culture «postmoderne», difficilmente propense a sposare «grandi narrazioni» e più votate a un disincanto consapevole nei confronti di istituzioni e racconti.

 


Un discorso a sé meriterebbe, poi, il mutamento del sistema dei media. Esso è stato investito non semplicemente da un’ondata di trasformazioni di natura tecnologica, con la progressiva «digitalizzazione» della produzione, della distribuzione e del consumo mediali, ma per certi aspetti ben più sostanziali, relativi cioè a tutti gli elementi del sistema stesso. Per esempio, la televisione generalista è stanca, funziona più per forza d’inerzia che per forza propulsiva. Nonostante i programmi siano modesti, il trash imperi, la competenza degli addetti ai lavori sempre più scarsa, la televisione generalista fa ancora grandi numeri, e questo soddisfa gli inserzionisti pubblicitari. Almeno per il momento.

 

Tuttavia è in atto un grande cambiamento: la televisione non è più il medium egemone, il mezzo che determina e condiziona la vita degli altri media. Il suo impero è durato più di cinquant’anni ma i barbari sono alle porte. Strani barbari: parlano una lingua diversa ma sono tecnologicamente molto avanzati: internet, ipod, mobile.

La televisione sente che sta perdendo il suo ruolo centrale e allora inventa nuove strategie di egemonia: una di queste è il brand. La cosiddetta «convergenza dei media» non è, dunque, semplicemente, un fenomeno d’incrocio di piattaforme e tecnologie, ma modifica le istituzioni e gli apparati mediali (le loro strategie, le loro stesse identità), le forme della testualità (i linguaggi, i generi, i racconti, che si fanno più decisamente «transmediali»), nonché, infine, le forme del consumo, le culture e le pratiche di tutti noi, fruitori/spettatori dei mezzi di comunicazione. Il marchio, la firma, il nome può servire allo scopo, soprattutto se questo sa diventare un brand capace di viaggiare tra le piattaforme capace perciò di catturare più target di pubblico.

 


Su questo sfondo di ampie trasformazioni, che hanno la natura del «processo» aperto e, per molti versi, ancora imprevedibile, è naturale andare a ripensare «la marca».

Il brand si trova infatti in una posizione cruciale.

Da un lato è chiaramente investito dal mutamento culturale, e in particolare dal «consapevole disincanto» che attraversa le culture del consumo, maggiormente dotate di competenze di natura comunicativa. Per questa ragione, alcuni suoi meccanismi d’edificazione risultano, a tutt’oggi, desueti: come si nota nelle pagine di questo volume – per citare un solo caso esemplare – il rapporto fra marca, testimonial e spettatore è completamente rivoluzionato, perché al «testimone» pubblicitario non si riconoscono più alcune prerogative ed alcune retoriche che parevano sue prerogative fino a pochi anni fa.

E d’altra parte, pur se colpito dal vento potente del disinganno, il brand è più che mai centrale, uno snodo chiave di cui non si può certo fare a meno. I mercati dei beni di consumo, dei servizi ma anche dei beni immateriali (come quelli culturali, e gli stessi prodotti mediali) stanno riscoprendo forme nuove di fare branding. Perché se è vero che i «grandi racconti» non danno più certezze e che viviamo nel tempo del «rischio», della «precarietà», dell’assenza di certezze stabili e durature, è anche vero che la ricerca di «bussole» o «ancore» è, perciò, ancor più fondamentale, per quanto esse possano essere parziali e temporanee.

 


L’universo dei «media convergenti», in particolare, si fa sempre più complesso, articolato, sfaccettato: è un mondo di offerta abbondante, che supera di gran lunga la capacità dell’individuo di attraversarlo interamente, ma costringe, invece, a individuare dei percorsi, a fare delle scelte, a includere o escludere certe opportunità di consumo. Come profeticamente ha indicato Marshall McLuhan, i media sono diventati sempre più ambienti.

 

L’ecosistema mediale – o meglio, «ipermediale» – nel quale siamo immersi è sempre più pervasivo, intessuto con le nostre vite di tutti i giorni in qualunque spazio e in qualunque tempo. I media non costituiscono un universo a parte – che ci condiziona, o che può essere tralasciato – perché i media fanno sempre più parte delle nostre esistenze.

 

E’ questo l’altro aspetto importante che non va tralasciato nel riconsiderare la vita del brand.

Questo volume cerca appunto di tracciare le nuove frontiere che il branding è chiamato a superare in un’età di «convergenza dei media».

 

Non si tratta di scelte che si possono intraprendere o meno: come si sottolinea assai correttamente nel volume, l’immagine di un brand che resta legato a strategie di comunicazione, a forme di rappresentazione e a modalità di racconto legate al passato – relative, cioè, a un sistema dei media ormai completamente mutato – è del tutto impensabile.

 

Brand reloading significa, appunto, indicare un approccio strategico alla comunicazione di marca che sia coerente col contesto dei media e della cultura convergente.

La vita e il successo dei marchi negli anni che verranno è legata alla loro capacità di sfruttare a pieno le enormi opportunità offerte dal nuovo scenario: essere presenti e attivi in maniera creativa sulle diverse piattaforme e i diversi media, adottare stili di comunicazione più «orizzontali», capaci non più solo di «sedurre», ma di rendere partecipanti i propri fruitori, rovesciare il disincanto e lo scetticismo in forme nuove di fiducia e dialogo.

 

Quel che i brand – e coloro che se ne occupano e li gestiscono – non possono certamente permettersi è di non avere piena consapevolezza di quel che accade attorno ai noi, tanto nel mondo dei media «convergenti» quanto in quello delle persone che manifestano l’esigenza di punti di riferimento onesti e credibili.

Questo volume è un buon punto di partenza per chiunque voglia lanciarsi nella nuova avventura.
 

A cura di

Aldo Grasso

Professore Ordinario di Storia e Critica della Radio e della Televisione presso l'Università  Cattolica di Milano, ma anche massmediologo, critico ed editorialista del Corriere della Sera.

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