Le donne sanno anche pensare
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Le donne sanno anche pensare
29/06/2015

Maria Angela Polesana, Docente Univ IULM di Milano, Guest di Brandforum.it
Una panoramica approfondita sul ruolo della donna nella nostra società contemporanea, in particolare nel contesto dell’ADV: da moglie e madre, a manichino e modella.
Quali tipologie ricorrono maggiormente? Esitono ancora gli stereotipi?

Premessa

Il titolo, volutamente provocatorio, di questa riflessione non è, a dire il vero, tanto lontano dalla realtà. Nonostante infatti le donne si laureino, quanto e anzi più degli uomini, le Indagini di Almalaurea, relative al profilo e alla condizione occupazionale dei laureati (prendendo ogni anno in esame 200 mila studenti universitari), ci consegnano una situazione piuttosto sbilanciata sul versante maschile.

 

Nel senso che il post laurea vede nettamente favoriti gli uomini che trovano più facilmente, rispetto alle donne, lavoro e che, a parità di mansioni, guadagnano più di queste ultime. Si tratta dunque di un forte divario non solo dal punto di vista occupazionale, ma anche contrattuale e retributivo. A un anno dalla laurea, le differenze in termini occupazionali superano i 7 punti (52,5% contro 60%). Quanto alla retribuzione, a un anno gli uomini guadagnano il 30% in più: 1.217 euro contro 936. A cinque anni le cose non migliorano, con un differenziale al 30,5%.

 


Il che risulta confermato anche dal terzo Rapporto Bachelor, intitolato "Giovani laureati in cammino tra Università e carriera" (che delineala situazione occupazionale di un campione, rappresentativo per aree di facoltà e geografica di mille laureati italiani, a distanza di quattro anni dal conseguimento del diploma universitario), secondo cui la disparità di genere è netta, considerando che metà degli uomini ha un contratto a tempo indeterminato, cosa che è un privilegio per solo il 27% delle appartenenti al mondo femminile. Inoltre, il 15% delle donne lavora in proprio (solo l'8% degli uomini); più spesso, rispetto ai colleghi, ha un part time (25% rispetto al 7%), ma non per scelta, per un 80% dei casi. E' così comprensibile che il 70% degli uomini si sia dichiarato molto o abbastanza soddisfatto del proprio contratto, mentre si sono espresse nello stesso modo solo la metà delle donne. Al punto che, recentemente, lo stesso Papa Francesco ha gridato allo scandalo a riguardo1.

 

 

 

Fonte: Terzo Rapporto Bachelor, Giovani laureati in cammino tra Università e carriera”

 


Del resto la condizione della donna, all’interno della società, è mutata solo in parte, rispetto al passato, dal momento che, dopo la rivoluzione femminista degli anni Settanta, la donna si confronta con nuove e contraddittorie pressioni, poiché se da una parte le è richiesto di raggiungere il successo, l’indipendenza e di essere competitiva, proprio come all’uomo (benché, lo abbiamo visto, la sua retribuzione salariale, a parità di mansioni svolte, sia comunque inferiore rispetto a quest’ultimo), dall’altra si muove ancora all’interno di una cultura permeata da stereotipi maschilisti che ne esaltano principalmente la fisicità e la costringono a una posizione “subordinata” (accanto alle aspettative di successo e di realizzazione personale, permane l'idea di una femminilità tradizionale, caratterizzata dalla condiscendenza, dalla bellezza e dalla passività), rispetto all’uomo,  nell’immaginario comune.

 


Un immaginario in cui convivono in maniera conflittuale “due” identità della donna, la cosiddetta true womanhood e la new womanhood 2, identificabili rispettivamente l’una nell’ideale tradizionale dell’“angelo del focolare”, una donna remissiva, sottomessa, condiscendente, l’altra in una donna “nuova”, una donna che  entra attivamente nella società assumendosi lei stessa (ruolo storicamente invece considerato solo maschile) il compito di lavorare, anche al di fuori della casa, facendo così saltare la tradizionale dicotomia tra pubblico-privato e lavoro- casa che la vedeva, appunto, relegata alla condizione di casalinga.

 


Non stupisce dunque più di tanto l’affermazione, di questi giorni, da parte dello scienziato  inglese 72enne Tim Hunt, Nobel per la Medicina e Professore di biochimica, quando, in occasione della conferenza mondiale dei giornalisti scientifici di Seul, immaginando, probabilmente, di essere spiritoso, ha affermato: "Lasciate che vi dica qualcosa dei mei problemi con la ragazze, tre cose succedono quando le donne sono in un laboratorio: tu ti innamori di loro, loro si innamorano di te e poi, quando le critichi, scoppiano a piangere". Per questo, ha proseguito lo studioso, sarebbe conveniente avere laboratori di ricerca separati per i due sessi: i maschi di qua, le femmine di là. La reazione dell'University College London (Ucl), insieme a Oxford e a Cambridge, una delle tre più prestigiose università britanniche, dove Hunt ha una cattedra come professore emerito, è stata immediata: il premio Nobel è stato costretto a dimettersi di fronte a un'ondata di sdegno da parte dell'intero corpo docente.
Una cosa del genere, in Italia, non sarebbe mai accaduta. Ricordate le battutacce sulla non avvenenza (per usare un eufemismo) di Rosy Bindi? Qualcuno si è dimesso?

 


Questo solo per evidenziare che, in Italia, di fatto, gli stereotipi sulla donna non solo sono presenti, come (e il caso sopracitato lo dimostra) in altri paesi, ma con la differenza di godere di un terreno particolarmente fertile. Favoriti in questo anche dai media che della donna continuano a proporre un’immagine monca. Le si attribuiscono tradizionalmente i ruoli o di casalinga, o di mamma, o di donna-oggetto: sfuggono tutte le situazioni che la vedono nel ruolo di professionista. A governare l’immaginario, anche femminile, rimane lo sguardo maschile.

 


Ampia è la letteratura a sostegno della negoziazione che avviene tra contenuti dei media e loro fruitori, tutt’altro che passivi, letteratura su cui non possiamo che concordare, astenendoci quindi da una loro demonizzazione, tuttavia crediamo anche che, accanto alla famiglia e alla scuola, i media possano e debbano giocare un ruolo importante per decolonizzare l’immaginario da stereotipi che pesano come macigni su una reale emancipazione femminile.

 


La figura femminile e maschile in ADV
Considereremo, nello specifico, la comunicazione pubblicitaria e dimostreremo come continui ad essere dominata da stereotipi negativi che avviliscono la figura femminile.
Una recente indagine, intitolata Come la pubblicità racconta gli italiani 3, di cui è coordinatore Massimo Guastini, Presidente Art Directors Club Italiano (Adci), in collaborazione con Nielsen Italia e il  Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna, prende le mosse dalla volontà di verificare se, a distanza di sei anni dal 2008, quando cioè il Parlamento Europeo approva, con 504 voti favorevoli, la proposta di abolire la pubblicità sessista e degradante per le donne, in Italia siano state davvero recepite tali indicazioni. Nello specifico le domande cui la ricerca si propone di rispondere sono:
– se la pubblicità racconti o meno in modo paritario uomini e donne;
– quali siano le tipologie femminili e maschili più ricorrenti;
– quanti milioni di euro si investano per supportare determinati caratteri maschili e femminili.  

 


La ricerca si basa sull’analisi di settemila campagne, uscite in televisione e sulla stampa nel  dicembre del 2013, ed esamina il modo in cui uomini e donne sono raccontati nella pubblicità, identificando dodici tipologie narrative femminili e nove maschili
Le donne sono rappresentate con maggiore frequenza, rispetto agli uomini, ovvero nel 54% dei casi, contro il 31,8%. Il dato non sorprende, dal momento che le donne sono responsabili acquisto per un’infinita gamma di prodotti e di servizi.

 


Le nove categorie in cui è stato identificato l’uomo sono:
“mariti”; “padri”; “innamorati”; “professionisti”; “sportivi”; “modelli”; “disponibili”; “grechini”; “ragazzi interrotti”.


Le dodici categorie individuate per le donne sono:
“mogli”; “madri”;  “innamorate”;  “professioniste”;  “sportive” ; “modelle” ; “disponibili”; “grechine”; “ragazze interrotte”; “manichini”; “preorgasmiche”;“emotive”.


Considereremo, come del resto si fa anche nella ricerca, le “etichette” che necessitano di qualche spiegazione e non, ovviamente, quelle autoesplicative come padri, madri, ecc.

 


Le tipologie ricorrenti
Ricordiamo dunque le seguenti tipologie:


donne sessualmente disponibili, ossia donne la cui espressione del volto e il cui linguaggio, nella vita di tutti i giorni, sono interpretabili come segnali di disponibilità a un rapporto sessuale. La percentuale di questa tipologia è del  12,7% (l’investimento4 è stato, nel solo mese di dicembre, di 10.894.274 euro) versus l’1,7% (l’investimento è stato, nel solo mese di dicembre, di 487.337 euro) di quella degli uomini sessualmente disponibili;

  

 

 

 

(Cfr. anche ADV Intimissimi – gallery)


grechine, vocabolo che indicava in passato le decorazioni con cui le maestre di scuola elementare invitavano i propri alunni a ornare i loro scritti, i loro quaderni. Per antonomasia dunque la grechina sta ad indicare una bellezza decorativa, passiva, priva di idee. Le grechine sono il 20,2% e i grechini il 2,5%. Nel dicembre 2013 sono stati investiti 16.781.362 euro per rappresentare le grechine e per i grechini 1.704.963;

 

(Cfr. ADV Citroen/Vanity Fair – gallery)


ragazze interrotte (inesistenti in quanto persone), espressione con cui si fa riferimento alla rappresentazione, per usare un eufemismo, “neocubista” (ossia parti del corpo femminile, o solo il lato B o solo le gambe, ecc.) della donna che appaga il voyeurismo maschile. Le ragazze interrotte sono il 4,01% e i ragazzi invece il 4,6, supportati però da un investimento inferiore, ossia 680.685 euro, contro i  3.169.242 euro per le prime;

 

 

 

manichini, cosiddette perché si caratterizzano per la staticità, per una certa fissità espressiva, esasperata dal trucco e dal  ricorso a Photoshop. Inoltre, non manifestano alcuna propensione al movimento. Su 100 campagne che rappresentano donne, 6,69 sono “manichini”. L’investimento per le “donne manichino”, nel mese di dicembre 2013, è stato pari a 1.216.875 euro, assenti invece i “manichini” uomini;

 


preorgasmiche, così definite perché i tratti del volto assumono le espressioni che sono state codificate, dal Journal  of Nonverbal Behavior 5, come caratterizzanti l’eccitazione che accompagna il rapporto sessuale in prossimità dell’orgasmo. La loro percentuale è modesta ossia l’1,94%, tuttavia, evidenzia la ricerca, sono più rappresentate le “preorgasmiche” delle “sportive” (1,94% contro 1,40%) e non sono stati individuati casi di uomini preorgasmici nella pubblicità. Questa narrazione della donna, nel dicembre 2013, ha visto un investimento pari a 1.101.149 euro;

 


emotive, sono quelle donne che si caratterizzano “per gli stati alterati di coscienza, di solito innescati da prodotti di uso comune”. Ossia donne visibilmente eccitate perché è loro offerta la possibilità di acquistare la cucina a prezzi scontati o sognanti e inebriate dal poter far uso di un detersivo efficace, ecc. “L’accumulo di questi annunci potrebbe indurre dubbi sulle facoltà cognitive delle donne, anche alla femminista più accesa. Il tema non è solo “il corpo della donna”. Anche la testa meriterebbe più rispetto 6 ”. Questa tipologia ha visto un investimento pari a 1.506.918 euro, ossia sette volte più di quanto sia stato investito per rappresentare le donne sportive, 208.403 euro. Non è stata invece riscontrata la presenza di uomini “emotivi”;

 

(Cfr. ADV Perlana – gallery)

 

modelli e modelle, ossia “prototipi di bellezza e come tale degni di emulazione, per aspetti puramente estetici e superficiali  7”. Le donne modelle costituiscono il 35,2% dei casi e l’investimento in questa tipologia è di 32.604.251 euro. Gli uomini modelli sono invece il 20,71% dei casi e la loro rappresentazione comporta un investimento di 7.256.844 euro.

 


Emerge dunque una narrazione pubblicitaria incentrata prevalentemente sulla fisicità della donna. L’81,27% delle donne “narrate” sono “modelle”, “grechine”, “disponibili”, “manichini”, “ragazze interrotte” e “preorgasmiche, mentre invece sommando le categorie maschili analoghe non si arriva nemmeno al venti per cento: 19,95%.
Gli esempi a sostengo di queste categorie sono davvero tanti, troppi, mentre ci sarebbe bisogno di una narrazione contro-corrente che avesse il coraggio di presentare le donne per quello che valgono, le donne per se stesse e non in funzione dell’uomo.

 


Considerazioni conclusive
Nel 1976 esce Gender Advertisements 8, del sociologo canadese Erving Goffman, un saggio in cui lo studioso dimostra come siano individuabili una serie di modalità rappresentative ricorrenti nella pubblicità (a mezzo stampa), che ritraggono la donna in pose e atteggiamenti volti a significare la sua inferiorità sociale rispetto all’uomo.
Egli mette a fuoco, in particolare, quelli che chiama i “genderismi”, ovvero i “codici di genere” con cui si costruiscono e stabilizzano le identità maschili e femminili nella quotidianità e nelle rappresentazioni sociali. Quella che Goffmann identifica come funzione gerarchica si esprime nella prevalenza di pubblicità che mettono in scena uomini e donne evocando, in maniera più o meno esplicita, divisioni e gerarchie tradizionali tra i sessi.

 


Il fatto che una simile ricerca conservi intatta la sua validità, che sia cioè ancora estremamente attuale, fa pensare.

 


Qualche esempio positivo esiste, ma si tratta di mosche bianche. A tal proposito ricordiamo lo spot per Vitasnella, The Perfect Woman, che vede protagonista Fabiola, una modella curvy, che sottopone il suo corpo al giudizio di otto persone diverse. Queste ultime intervengono sul suo corpo “aggiustandolo” attraverso un mapping 3D. Chi la vede troppo grassa, e quindi le “riduce” la figura, chi la vorrebbe con le labbra più carnose, chi con gli zigomi più sporgenti: il tutto si traduce in altrettanti rimodellamenti in base ai vari canoni estetici. La ragazza ne esce completamente trasformata, diventa “perfetta”, finché un sorso di acqua la fa tornare così com’era. Il messaggio semplice, ma importante, è: “Non lasciare che nessuno ti dica come devi essere”. Sii cioè te stessa, vali per quello che sei e non per come sei. Torna alla mente Dove con la sua campagna per la bellezza autentica popolata da donne vere, anche con le rughe.
Questo a dire che una narrazione diversa, che parli di donne reali e non di stereotipi è non solo possibile ma auspicabile per aiutarci tutte ad avere lo spazio che meritiamo nella società che è anche “nostra”.

 

 

 

Note:

1 P. RODARI, La battaglia di Francesco per la parità delle donne. Scandaloso pagarle meno, in “La Repubblica”, 30 aprile 2015, p.28.

2 R. A. GORDON, Anoressia e bulimia. Anatomia di un'epidemia sociale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1991.

3 M. GUASTINI, NIELSEN, DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA e  COMUNICAZIONE DELL’UNIVERSITA’ di BOLOGNA, Come la pubblicità racconta gli italiani, in http://www.datamediahub.it/wp-content/uploads/2014/11/Come-la-pubblicit%C3%A0-racconta-gli-italiani.pdf

4 I dati relativi agli investimenti sono stati forniti da Nielsen Italia.

5 “Un team di scienziati ha realizzato uno studio pubblicato sul Journal of Nonverbal Behavior. Hanno chiesto a 100 volontari di videoregistrare le loro espressioni durante i rapporti sessuali, mentre provavano un’eccitazione che arrivava fino all’orgasmo.Hanno poi analizzato tutto il materiale usando il Sistema di Codifica delle Espressioni Facciali (Facial Action Coding System – FACS) identificando le Unità di Azione prevalenti”. http://www.datamediahub.it/wp-content/uploads/2014/11/Come-la-pubblicit%C3%A0-racconta-gli-italiani.pdf, pp.24 e 25.

6 M. GUASTINI, NIELSEN, DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA e  COMUNICAZIONE DELL’UNIVERSITA’ di BOLOGNA, Come la pubblicità racconta gli italiani, op.cit., p.28

7 Ivi, p.30.

8 E. GOFFMAN, Gender Advertisements, Harper and Row, New York, 1979; prima edizione in «Studies in the Anthropology of Visual Communication», 3, 1976, pp. 69-154.

 

 

Maria Angela Polesana, Ricercatore presso l'Università IULM di Milano insegna Consumi e cultura d'impresa (con Mauro Ferraresi) alla triennale in Relazioni pubbliche e comunicazione d'impresa e Strategia e politica delle aziende di marca alla laurea magistrale in Brand mangement (con Massimiliano Bruni).

 

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