CSA e l’ascesa dei Belief-Driven Buyers ed Employees: il caso Accenture
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CSA e l’ascesa dei Belief-Driven Buyers ed Employees: il caso Accenture
24/05/2022

BRAND RENAISSANCE
SOSTENIBILITÀ

Spesso le aziende ricorrono a programmi di CSR per migliorare la loro immagine e reputazione: come è possibile evitare il CSR-washing? Ne parliamo attraverso il caso Accenture.

Da tempo ormai si sente parlare sempre più frequentemente di Corporate Social Responsibility (tema molto caro a Brandforum, trattato in vari paper presenti nella sezione “Sostenibilità“) e di imprese che vantano l’adozione di logiche e strategie non orientate esclusivamente alla massimizzazione dei profitti, ma anche alla tutela dell’ambiente e della società in cui operano.

Da un lato, numerosi studi hanno descritto la CSR come paradigma aziendale che può permettere alle organizzazioni di svolgere le proprie attività in modo sostenibile. Dall’altro, alcuni accademici hanno iniziato a interrogarsi sui vantaggi che tale orientamento potrebbe apportare, innanzitutto, all’impresa che lo adotta: emerge qui come i brand ricorrano a programmi di Responsabilità Sociale d’Impresa per ottenere ritorni in termini di immagine e di reputazione.

Questa consapevolezza, rafforzata da un crescente numero di casi di CSR-Washing, ha portato gli stakeholder che ruotano attorno alle imprese a richiedere alle stesse un impegno values-driven e purpose-driven più concreto e tangibile; per questo, oggi, si assiste alla diffusione del concetto di “Corporate Sociopolitical Activism” (CSA), inteso quale naturale evoluzione della CSR come evidenziato in alcuni recenti studi americani.

Corporate Social Activism (CSA) e la nascita dei Belief-Driven Buyers nel mondo dei consumi

 
Quando si parla di CSA si fa riferimento alla decisione di un’azienda di schierarsi pubblicamente contro o a favore di una determinata causa sociopolitica ed è dunque chiaro che nel momento in cui tale azienda espone la propria posizione nei confronti di tematiche spesso controverse, quali l’immigrazione, il razzismo, i diritti della comunità LGBTQ+, corre il rischio di danneggiare il rapporto con coloro che non condividono i suoi valori e le sue convinzioni. Allo stesso tempo, tuttavia, è proprio l’assunzione di questo rischio e di questa responsabilità che distingue il CSA dalla tradizionale CSR. L’impegno sociopolitico delle aziende, infatti, si differenzia dalla Responsabilità Sociale d’Impresa principalmente per la polarizzazione e il dissenso che è in grado di generare tra l’opinione pubblica.

Considerando che, già nel 2018, il 60% dei Millennials e dei giovani della Generazione Z si aspettava che i brand prendessero posizione pubblicamente nei confronti di questioni complesse come quelle di cui si è parlato in precedenza, risulta evidente quanto sia importante per le aziende di oggi distinguersi per il proprio impegno in ambito sociale. Le imprese che vogliono emergere nel contesto attuale e differenziarsi dai competitors, dunque, devono rendersi conto di operare in un ecosistema caratterizzato non solo da una nuova categoria di consumatori, i cosiddetti Belief-Driven Buyers, ma anche da una nuova classe di lavoratori, i cosiddetti Belief-Driven Employees che, nel valutare le organizzazioni con cui si relazionano, considerano innanzitutto il purpose aziendale, l’orientamento valoriale che guida l’attività d’impresa e anche l’impatto che la stessa ha sulla società.

È importante sottolineare, inoltre, come la pandemia da Covid-19 e le insurrezioni sociali, che hanno caratterizzato soprattutto gli ultimi due anni, abbiano contribuito a rendere i consumatori molto più intransigenti rispetto al passato: essi, infatti, sono pronti a boicottare, ad esempio diffondendo un passaparola negativo online e offline e non acquistando i prodotti/servizi di determinati brand, quelle aziende che hanno avuto una condotta o hanno espresso dei valori che non condividono.

Dal Corporate Social Activism (CSA) alle nuove esigenze dei dipendenti nel mondo del lavoro 

 
Nel mondo dei consumi questa tendenza ha portato all’affermazione delle pratiche del buycotting e del boycotting che permettono agli individui di mostrare, attraverso il comportamento d’acquisto, la propria soddisfazione o la propria insoddisfazione nei confronti dell’etica di un’azienda. La portata di questi fenomeni oggi è assolutamente significativa e non può più essere ignorata dalle organizzazioni, soprattutto perché questi atteggiamenti si stanno diffondendo anche nel mondo del lavoro, dove i job seekers e le risorse umane in generale iniziano scegliere, evitare o addirittura abbandonare un employer sulla base dei suoi principi etico-morali e dell’impatto che le sue attività hanno sulla società.

Uno dei trend che ha caratterizzato l’anno 2021, infatti, riguarda l’ascesa dei già citati “Belief-Driven Employees”, dipendenti, soprattutto in età compresa tra i 18 e i 34 anni, che sono guidati dalle proprie convinzioni e dalle proprie credenze nella scelta dell’azienda per cui lavorare e si aspettano che il proprio employer si impegni attivamente anche in ambito sociopolitico.

L’impatto dei Belief-Driven Employees sul ruolo del buon employer

 
La promessa di un’adeguata retribuzione economica, dunque, non è più sufficiente per attirare e trattenere le risorse umane che caratterizzano il nuovo mondo del lavoro e, infatti, un buon employer, per essere definito tale, deve sposare un orientamento valoriale che privilegi anche l’equità e il rispetto. Non a caso, la società di consulenza organizzativa in ambito Human Resources Great Place to Work e il Top Employers Institute, ogni anno, nel rilasciare le certificazioni che attestano le qualità delle aziende in quanto datori di lavoro valutano anche l’etica delle stesse (con aumento di attenzione verso, ad esempio, le politiche volte a favorire la sostenibilità, la diversità, l’inclusione e la capacità aziendale di mettere al centro di ogni processo la persona). L’importanza sempre più significativa che queste tematiche stanno assumendo nel mondo del lavoro è testimoniata anche dalle attività di  Great Place to Work Italia. Come ci ha raccontato Valentina Maserati (intervistata l’8 novembre 2021), Marketing Specialist GPTW Italia, si è deciso di aggiornare il modello di analisi utilizzato per il conferimento dell’omonima certificazione, aggiungendo, tra i fattori considerati per valutare le aziende che sono interessate ad ottenere la stessa, la cosiddetta “componente For All”, al fine di valorizzare quelle imprese che ambiscono ad essere dei “great place to work per tutti”, indipendentemente dalle caratteristiche personali dei propri dipendenti.

L’adozione di questo orientamento si rivela necessario per quegli employers che oggi ambiscono ad attirare i talenti più giovani: a livello nazionale e internazionale, essi sono infatti alla ricerca di datori di lavoro contraddistinti dal coraggio di prendere posizione pubblicamente all’interno di dibattiti che riguardano tematiche sociopolitiche complesse ma, allo stesso tempo, assolutamente urgenti e attuali come la sostenibilità, la tutela dei diritti delle minoranze e della comunità LGBTQ+.  Tuttavia, è importante sottolineare come la coerenza tra comunicazione e pratiche di impresa sia imprescindibile: qualsiasi forma di “washing” volta a ripulire o a migliorare l’immagine aziendale finirebbe solamente per danneggiarla.

Diversity & Inclusion alla prova: il caso del brand Accenture

 
Alla luce di quanto detto fino ad ora, è interessante notare come tra le aziende riconosciute “Top Employers Italia” nel 2021, molte abbiano compreso l’importanza di trattare, attraverso i social media, argomenti inerenti, ad esempio, alla Diversity & Inclusion. In questo senso, Accenture, azienda che opera nei settori Strategy & Consulting, Interactive, Technology e Operations, rappresenta un caso degno di nota. Analizzando i contenuti pubblicati da questo brand attraverso il proprio profilo Instagram italiano è possibile riscontrare infatti una forte sinergia tra il tema che riguarda la centralità delle risorse umane e quello che concerne la lotta contro ogni forma di discriminazione. Accenture, in particolare, coinvolge i propri dipendenti nella realizzazione di contenuti volti ad esprimere la posizione assunta all’interno di dibatti sociopolitici che riguardano, ad esempio, la tutela dei diritti della comunità LGBTQ+.

Figura 1 – Contenuto tratto dal profilo Instagram @Accentureitalia.

In questo caso, ad esempio, il Brand ha deciso di riportare alcuni dati estratti dal report Getting to Equal Pride 2020”, attraverso cui sono stati esaminati il sentiment e il punto di vista sul mondo del lavoro dei dipendenti appartenenti alla comunità LGBTQ+. Di fronte a questa iniziativa, si ritiene che Accenture dimostri di essere realmente interessata a individuare le principali problematiche e ingiustizie vissute da questi individui, al fine di apportare cambiamenti e miglioramenti concreti sia all’interno che all’esterno della propria Organizzazione. È interessante notare, inoltre, come il primo di questi post sia seguito da una caption (“Aumentare l’apertura e l’inclusività sul luogo di lavoro non è solo la giusta direzione, ma contribuisce anche ad aumentare l’innovazione. #GettingToEqual #PrideAtAccenture”) che esprime un concetto ricorrente nei contenuti condivisi dall’Azienda, ovvero quello secondo cui l’offerta di una cultura aziendale paritaria non generi vantaggio solo per le risorse umane, ma anche per le organizzazioni perché solamente valorizzando la diversità e l’unicità dei dipendenti, è possibile perseguire l’innovazione, vincere le sfide poste dal mercato e ottenere risultati eccellenti.

Un altro esempio interessante è quello sotto riportato:

Figura 2 – Contenuto tratto dal profilo Instagram @Accentureitalia.

Questo post rende evidente come l’obiettivo di Accenture non sia semplicemente quello di condividere il proprio punto di vista in merito al Pride, ma anche di sottolineare come l’ambiente lavorativo offerto ai talenti che potrebbero entrare a far parte dell’organizzazione permetta a ognuno di esprimere se stesso a 360° gradi e di sentirsi parte di una grande comunità. È importante evidenziare, inoltre, come l’impegno riposto nel tentativo di creare un contesto aziendale realmente inclusivo non sia solo comunicato, ma trovi anche riscontro nella realtà attraverso iniziative specifiche: dal 2017, infatti, Accenture ha introdotto nella propria Family Leave Policy la possibilità per tutti i dipendenti che non sono genitori legalmente riconosciuti di usufruire di permessi familiari relativi alla nascita e all’adozione con il fine di garantire a tutte le famiglie i benefici di cui godono le coppie eterosessuali.

Per concludere, dunque, si ritiene che in questo caso si possa parlare non solo di una forma di Employer Branding potenzialmente in grado di attirare quelle giovani risorse umane alla ricerca di un datore di lavoro capace di esporsi su tematiche controverse, ma anche di un passaggio dal telling al doing fondamentale per la credibilità di un’azienda.

A cura di

Evita Castelli

Laureata presso l’Univeristà Cattolica del Sacro Cuore di Milano in Comunicazione per l’Impresa, i Media e le Organizzazioni complesse (CIMO), attualmente Marketing Project Development Intern presso Chromavis Fareva S.p.A.

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