Dai temporary shop allo shop sharing
Brand Trends
Dai temporary shop allo shop sharing
31/10/2008

Elisabetta Sala, Redazione brandforum.it
Per attrarre un consumatore mutevole e dai bisogni sempre più complessi e stratificati, sono necessari spazi flessibili, percorsi di fruizione differenziati e linguaggi estetici sempre nuovi. Nasce così la formula temporanea dello shop sharing.

1. Introduzione
Fino a poco tempo fa bastava la parola "temporary store" a dare l'idea di una forma alternativa di retail, nonché di un innovativo mezzo di comunicazione a disposizione della marca. Oggi i "negozi a tempo" sono praticamente ovunque, con la definizione originale che si allarga pericolosamente fino a comprendere luoghi anche molto diversi fra loro, purchè accomunati da una qualche idea di provvisorietà (non solo negozi ma anche gallerie d'arte e outlet multimarca). Moda passeggera destinata a scomparire? Forse. Ma sicuramente, a qualche anno di distanza dalla loro comparsa anche sul panorama italiano, si impone una riflessione sui molteplici cambiamenti in atto, frutto di trasformazioni a livello tecnologico e sociale. Da un lato, infatti, la rivoluzione digitale ha permesso di arricchire l'offerta all'interno del punto vendita, a volte addirittura mutandone aspetto e funzionalità(basti pensare a come spesso lo spazio di vendita si trasformi in una semplice vetrina mentre paradossalmente il vero e proprio atto di acquisto sia rimandato ad altri tempi e luoghi). Dall'altro, la definizione di una società moderna come sempre più "liquida" (Zygmunt Bauman, "Vita liquida", Laterza, 2006), e dunque caratterizzata da strutture sociali più fluide e instabili, impone delle modifiche anche sul piano retail. Per attrarre un consumatore mutevole e dai bisogni sempre più complessi e stratificati, sono necessari spazi flessibili, percorsi di fruizione differenziati e linguaggi estetici sempre nuovi. È solo in quest'ottica che può essere considerato lo strumento del temporary store come strategico per il rapporto tra marca e consumatore. Lungi dall'essere semplicemente qualcosa di temporaneo, e tantomeno uno spazio esclusivamente di vendita, il negozio di cui parliamo deve possedere quelle caratteristiche di unicità, spettacolarità e forte caratterizzazione che consentono di mettere in scena all'interno di uno spazio fisico il mondo valoriale della marca, creando un'esperienza di incontro realmente arricchente e interessante per il consumatore.


2. Il negozio a tempo come esperimento: il Temporary Store Benetton
Il 4 giugno 2008 viene inaugurato in Corso Vittorio Emanuele, zona storica dello shopping milanese, un nuovo ampio spazio temporaneo del noto marchio di abbigliamento United Colors of Benetton. Dedicato esclusivamente ai più piccoli, lo spazio espositivo è suddiviso in tre aree. L'ingresso, dove il visitatore è subito accolto da una scenografica cascata di magliette colorate e da due schermi touch screen che permettono di individuare la taglia corretta e definire il proprio look. Lo spazio "Baby" (da 0 a 5 anni), caratterizzato da colori tenui e luci soffuse, in cui vengono utilizzati solo materiali naturali e l'atmosfera è resa più intima da peluche e candele profumate. La zona "Kid" (6 ai 12 anni), più minimalista, con scaffali e ampi pannelli nei toni del grigio per far risaltare la coloratissima collezione. Ovunque alle pareti grandi fotografie degli abiti della collezione sottolineano come il focus dello store sia interamente sui prodotti anche se per cercare di arricchire la shopping experience viene previsto al piano inferiore dell'ampio punto vendita un corner dove in alcune giornate un team di parrucchieri di Coppola offre i propri servizi ai piccoli visitatori.
Pur trattandosi di un luogo piacevole e molto accogliente, lo spazio proposto da Benetton fa emergere alcuni aspetti critici legati alla formula del temporary store e alla possibilità di un loro futuro sviluppo. Innanzitutto è facile cadere nel malinteso che si tratti semplicemente di negozi "provvisori", in cui la dimensione temporale è l'unica discriminante rispetto ai tradizionali punti vendita. In realtà, affinché possano acquisire valore strategico come strumenti comunicativi, la differenziazione dovrebbe avvenire ad un livello più profondo. Se, infatti, per un negozio di tipo tradizionale l'obiettivo primario è spingere all'acquisto immediato (focus sui prodotti), per il temporary store è essenziale la dimensione relazionale, l'incontro tra mondo della marca e mondo del consumatore. Non si tratta più di spazi di vendita (un'attività assente o comunque estremamente ridotta) ma di luoghi in cui la marca racconta e mette in scena se stessa per parlare al consumatore (o forse in questo caso sarebbe più opportuno parlare di visitatore), coinvolgendolo soprattutto a livello emotivo ed esperienziale. Al contrario, nello spazio progettato da Benetton l'attività di vendita appare comunque assolutamente predominante rispetto alla spettacolarità e alla dimensione emozionale. Gli elementi di personalizzazione e di interazione che dovrebbero creare una shopping experience più completa sono solamente un illusione data da percorsi in realtà "preconfezionati", che cercano di arricchire quello che rimane essenzialmente un luogo di acquisto, progettato e organizzato secondo le logiche di un punto vendita tradizionale. Il temporary store, invece, funziona proprio nel momento in cui riesce a creare ogni giorno su di sè attenzione, a generare l'evento (da qui l'impossibilità di restare attivo per lunghi periodi di tempo), a comunicare in maniera forte e immediata l'identità e i valori della marca di riferimento. Solo in questo modo qualcosa di temporaneo può paradossalmente diventare un efficace e innovativo strumento di fidelizzazione. Un secondo aspetto critico, infatti, riguarda proprio il rapporto del temporary store con il mondo della marca. Negli ultimi anni una rinnovata attenzione alla dimensione retail, ha permesso la diffusione di punti vendita sempre più curati dal punto di vista logistico ed estetico. Non solo l'organizzazione dei percorsi e dell'area espositiva in base alle teorie sulla percezione visiva e la memorizzazione cognitiva, ma anche una cura particolare nei confronti dei colori, dei materiali e delle fonti di illuminazione usate. Tuttavia, anche in questo caso il temporary store dovrebbe andare oltre l'estetica di un luogo "piacevole", proponendo un legame più stretto tra spazio e brand. Non si tratta solo di offrire una shopping experience coinvolgente (che includa attività e percorsi, per quanto possibile, personalizzati) ma di fare in modo che il luogo si trasformi in una sorta di palcoscenico in cui i valori e le caratteristiche dell'identità di marca possano andare in scena. È proprio attraverso questa consonanza tra spazio e mondo valoriale della marca che è possibile acquistare distintività in un panorama sempre più affollato, anche di temporary store. Lontani, insomma, i tempi in cui bastava solo pronunciare la parola "temporary" per rendere qualcosa diverso e innovativo, oggi non appare più sufficiente creare luoghi in grado di rispondere a canoni estetici astratti (bellezza, eleganza ecc.), ma sono necessari spazi che sappiano esprimere a livello tridimensionale le potenzialità e il potere di differenziazione della marca, offrendo un'esperienza unica proprio perché frutto dell'incontro tra due mondi, quello del brand e quello del consumatore.


3. Verso nuovi rapporti tra marca e luoghi: lo spazio temporaneo di Gabetti
Sempre nel giugno 2008, nel cuore del quartiere milanese di Brera, Gabetti, azienda leader nel panorama immobiliare, ha dato vita ad uno spazio temporaneo in cui poter incontrare i propri clienti, offrendo per un intero mese un servizio di consulenza e un ciclo di conferenze sui temi più "caldi" del settore. L'ambiente, arredato con i colori del marchio (bordeaux e bianco) in combinazione con il grigio scuro di finiture e pannelli, è stato predisposto seguendo due principi guida particolarmente significativi se si considera il settore d'appartenenza: accoglienza e trasparenza. Organizzato, infatti, per invitare gli ospiti alla permanenza e all'incontro, prevede un angolo caffetteria (che nel tardo pomeriggio si trasforma in un vero e proprio bar offrendo un originale aperitivo) e una serie di salottini che creano diversi angoli conversazione. Ritroviamo, invece, il concept della trasparenza sia nei materiali usati (sedie ed espositori alternano la trasparenza dei materiali plastici con la modernità del metallo), sia negli elementi che segnano il confine fra interno ed esterno. Due ampie vetrate, infatti, mettono in comunicazione l'interno del negozio con l'ambiente circostante dell'animato Corso Garibaldi, attirando l'attenzione dei passanti da un lato e aprendo lo spazio alla vita e al movimento cittadino dall'altro. Alle pareti completano l'allestimento le immagini di progetti e famosi edifici appartenenti o appartenuti al gruppo immobiliare, rese preziose da un'accurata illuminazione. Proprio la luminosità, creata artificialmente dai faretti seminascosti e in maniera naturale dalle ampie vetrate, permette di conferire eleganza e rendere particolarmente accogliente un ambiente piuttosto essenziale. Al di là della gradevolezza del luogo e del suo stretto legame con i valori e le caratteristiche che la marca intende rappresentare (che abbiamo visto essere un aspetto fondamentale per l'utilizzo degli spazi come mezzo di espressione e rafforzamento della brand identity), l'esperienza di Gabetti si presta a riflessioni sulle possibili nuove dinamiche nel rapporto tra marca e luoghi. Innanzitutto è interessante notare come il Gabetti Temporay Store sia uno dei primi esempi in Italia dell'applicazione nel campo dei servizi della logica dei "negozi a tempo". In virtù della natura emozionale, spettacolare e poco votata alla vendita che caratterizza la formula dei temporary store, l'ambito dei servizi appare come una dimensione particolarmente congeniale. Infatti, è proprio quando si tratta di comunicare qualcosa di astratto e complesso (come potrebbe essere un servizio di intermediazione immobiliare) che si rende particolarmente necessario uno spazio che incarni la marca, consentendo un'immersione fisica e reale nel suo mondo, che possa dare concretezza non solo al prodotto, ma soprattutto alla relazione fra marca e consumatore. L'applicazione delle logiche e delle potenzialità degli "spazi a tempo" nell'ambito dei servizi rappresenta un territorio ancora inesplorato, che però potrebbe dar vita a case histories e contaminazioni molto interessanti (particolare, ad esempio, il recente caso della società finanziaria Equilon, che per pubblicizzare i propri prodotti e fornire assistenza immediata al cliente ha dato vita ad una vera e propria agenzia itinerante a metà strada fra il temporary store e lo stand fieristico).
Un secondo aspetto particolarmente significativo legato allo spazio Gabetti è che quest'ultimo si inserisce in un più ampio e innovativo progetto, denominato shop sharing, dello studio di rappresentanza Sidecar Eventi. La traduzione del termine può essere ingannevole: non si tratta, infatti, della condivisione di un negozio, ma piuttosto dell'alternarsi all'interno del medesimo spazio espositivo (generalmente in una location privilegiata e particolarmente visibile) di diverse marche. Lo spazio viene occupato, personalizzato e gestito da ciascuna marca per il periodo di un mese, allo scadere del quale, come su un vero palcoscenico, cambia la scenografia e un nuovo "personaggio" può andare in scena. Una sorta, dunque, di staffetta tra marche che dà vita ad uno spazio flessibile e mutevole. Il vantaggio è quello di poter usufruire di un luogo ad alta visibilità, in una zona centralissima del capoluogo lombardo; di contro la necessità di caratterizzare in maniera distintiva lo store e di supportarlo con adeguate azioni di PR e advertising, per evitare il rischio di generare confusione tra le varie marche che si succedono o, peggio, di passare inosservati.


4. Conclusione
Per alcune caratteristiche (prima fra tutte le temporaneità, ma anche l'insistenza sull'unicità di un'esperienza esclusiva e l'alto grado di spettacolarità) il crescente fenomeno dello shop sharing è stato considerato come una naturale evoluzione dei temporary store. Tuttavia, ad un'analisi più attenta, emerge come il rapporto tra luogo e marca sia per molti aspetti differente. Nei temporary store, infatti, é la marca a portare i propri consumatori (acquisiti o potenziali) in un determinato spazio per poi, attraverso la rappresentazione tridimensionale dei propri valori e l'offerta di una shopping experience a 360°, riceverne a sua volta legittimazione e conferma. Al contrario, nello shop sharing è prevalentemente la curiosità per un luogo mutevole, mai uguale a se stesso, ad allettare i visitatori. Stravolgendo l'idea del "negozio di fiducia", lo spazio acquista valore in virtù della sua capacità di innovazione, giocando sul potere di attrazione indotto da un'offerta sempre diversa. Un cambiamento che riflette una tendenza più generale verso la trasformazione e la fluidità: sono le stesse città ad essere cambiate, trasformandosi in luoghi di transito in cui alle tradizionali aree dello shopping cittadino si stanno sostituendo spazi ibridi in continua metamorfosi. Di conseguenza, i luoghi non possono più essere considerati come un semplice strumento al servizio del brand, ma appaiono come un vero e proprio motore in grado di generare attenzione e discorsi attorno alla marca.
 

Allegati

A cura di

Elisabetta Sala

Redattore Senior
Responsabile Partners e Advertising

Collabora con Brandforum.it dal 2007

Dopo molti anni come Account Director in grandi gruppi di comunicazione, scopre il pieno potenziale della relazione tra marca e consumatore attraverso il marketing collaborativo e la pianificazione di esperienze in-store.

Attualmente lavora in Catalina Marketing, occupandosi della gestione di progetti di in-store marketing per brand leader nel mondo FMCG.

Ha collaborato come docente con Università degli Studi (Milan), IED (Milan), Domus Academy (Milan) sviluppando il tema dell'efficacia comunicativa dei brand attraverso gli spazi fisici e dell'evoluzione del consumer engagement (internal e external branding).

Ha contribuito alla stesura di alcuni saggi sul tema della brand communication in “Internal Branding” (Franco Angeli, Milan, 2007), “Brand Reloading” (Franco Angeli, Milan, 2011), "Manuale di scrittura digitale creativa e consapevole" (Flaccovio Editore, 2016).

Attualmente è altresì docente di “Digital strategies” e “Communication and Promotion” presso il Master Global Business and Sustainability (ALTIS) e cultore della materia presso la cattedra di “Storia e linguaggi della Pubblicità” (Università  Cattolica di Milano).

Profilo LinkedIn

Ti potrebbe interessare anche...

Negli ultimi anni, le produzioni audiovisive e il Branded Entertainment hanno cominciato a raccontare anche i luoghi: sono molte le produzioni che si stanno avvicinando a questa pratica, promuovendo e valorizzando il territorio attraverso destination branding e place branding.
Green marketing o greenwashing? Come sviluppare efficaci strategie in ottica di sostenibilità: i casi Lush e L’Oréal.