Engagement: lo spirito del gioco “contagia” anche il brand
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Engagement: lo spirito del gioco “contagia” anche il brand
07/03/2017

Gabriele Qualizza, Redattore Senior di Brandforum.it
E' possibile per un consumatore sviluppare engagement nei confronti di un brand a prescindere dalla prospettiva di acquisto?

Da qualche tempo si registra nell’ambito del marketing un crescente interesse per le customer voluntary performances, espressioni comportamentali nelle quali si rende evidente la disponibilità del consumatore a spendersi a favore di un brand in maniera non canonica, al di fuori degli schemi, secondo percorsi non preventivati e non preventivabili.

 

1. Una dimensione festosa di gioco, di dono e di gratuità

Scrivere una recensione, raccomandare un prodotto o un brand, attivare le dinamiche del passa-parola, offrire assistenza ad un amico per l’installazione di un software, attendere pazientemente in coda per ore, solo per poter toccare con mano l’ultima versione di uno smartphone: siamo di fronte ad un ampio e variegato insieme di situazioni extra role (Pervan e Bove, 2011), contrassegnate da una dimensione festosa di gioco, di dono e di gratuità, che – come segnala un recente rapporto di Weber Schandwick (2014) – è caratteristica dello scambio per reciprocità, più che dello scambio di mercato.

 

Tali comportamenti, pur essendo del tutto spontanei e volontari, offrono notevoli benefici alle imprese, non solo perché contribuiscono a migliorare la qualità del servizio, ma anche perché arricchiscono di nuovi sensi l’esperienza d’uso del prodotto e dilatano il raggio d’azione della comunicazione, alimentando il canale del passa-parola.
L’attenzione per questi fenomeni ha trovato ospitalità – in concomitanza con l’impetuoso sviluppo dei social media e degli innovativi strumenti analitici utilizzati per valutare il comportamento del consumatore online – sotto il “cappello concettuale” del consumer-brand engagement.

 

Manca tuttavia una definizione condivisa del concetto. Alcuni interpretano l’engagement come un processo psicologico che orienta lo sviluppo della fidelizzazione del cliente (Bowden, 2009),  altri come una tendenza dei consumatori ad includere i brand preferiti nel proprio self-concept (Sprott et al., 2009), altri ancora come una manifestazione comportamentale del cliente, diretta verso un brand o un’azienda, che va al di là del semplice acquisto ed è originata da driver motivazionali (van Doorn et al., 2010), oppure come uno stato psicologico che si verifica nell’ambito di esperienze interattive del consumatore con un brand, contrassegnato dall’espressione di rilevanti dimensioni di carattere cognitivo, emozionale e comportamentale (Brodie et al., 2011), altri infine come una connessione significativa tra una pluralità di consumatori, che utilizzano un linguaggio, delle immagini e dei significati collegati al brand, per comunicare fra loro (Kozinets, 2014).

 

La difficoltà è legata sia al carattere polisemico del verbo “to engage” (cfr. van Doorn et al., 2010; Gambetti e Graffigna, 2011) di volta in volta utilizzato nella lingua inglese per indicare una forma di coinvolgimento, un impegno reciproco, una promessa di fedeltà, una disponibilità dei consumatori a investire le proprie energie a favore di un’azienda o di un brand, sia al carattere multidisciplinare di questo tema, oggetto di attenzione da parte di studiosi e professionisti appartenenti a differenti settori, dal marketing alla psicologia, dalla sociologia all’information science  (Hollebeek, 2011).

 

 

2. Chi sale “a bordo” del brand? Il caso di De Wallen

Pur nella molteplicità degli accenti e delle intonazioni, la gran parte degli autori che si sono occupati di questo argomento sembra comunque orientata a svincolare il consumer brand engagement da una riduttiva visione di carattere commerciale (Verhoef et al., 2010; van Doorn et al., 2010; Vivek et al.. 2011; Fliess et al., 2012).
In altri termini, si riconosce che il consumatore può sviluppare engagement nei confronti di un brand, anche a prescindere da ogni prospettiva di acquisto.

 

Esemplare a questo proposito è il caso della Ferrari, marca che può contare su legioni di appassionati, pronti a seguire le prodezze dei suoi piloti sui principali circuiti della Formula 1, alimentando con i propri racconti il mito delle rosse di Maranello: solo pochi tra questi soggetti sono tuttavia in grado, nel corso della propria vita, di “fare proprio” anche uno solo dei costosissimi modelli proposti dalla casa del “cavallino rampante”. Analogamente, molti consumatori “engaged” nei confronti della Apple finiscono per scegliere al momento dell’acquisto, anche per evidenti ragioni di costo, i tablet e gli smartphone proposti dal principale concorrente, Samsung. E ancora: si può sviluppare engagement anche nei confronti di un’idea, di un gruppo musicale, di un hobby, di una destination turistica, ecc. In fin dei conti, anche i Beatles…possono essere engaging!

 

 

 

Considerazioni di questo tipo aprono per altro interessanti prospettive. Per usare una metafora, possiamo raffigurarci il brand come una nave da crociera, a bordo della quale si imbarcano, oltre ai clienti già acquisiti, anche molti altri soggetti: potenziali acquirenti, semplici “simpatizzanti” e addirittura clienti di aziende concorrenti (Sawhney, Verona e Prandelli,  2005), attratti dal seducente richiamo di una marca maggiormente appealing, con la quale si sentono disposti a interagire. Cambia dunque il significato di “appartenenza al brand” e si dilata nel contempo l’orizzonte a cui guardare per definire il concetto di “rete del valore”, non più ristretta al fitto intreccio di relazioni fra «attori economici distinti – fornitori, partner in affari, alleati, clienti – che operano insieme nella co-produzione del valore» (Normann e Ramirez, 1993, p. 66), ma “incorporata” in più ampi aggregati di carattere sociale, fino a comprendere singoli individui e comunità di consumatori engaged nei confronti dello stesso oggetto: brand, azienda, gruppo musicale, destination turistica, attività sportiva, ecc. (cfr. Brodie, 2016).

 

A titolo di esempio si potrebbe citare il caso di De Wallen (http://www.dewallenindustry.com), un progetto imprenditoriale nato all'interno della community degli urban bikers (cfr. Biraghi, Gambetti e Pace, 2016). L’attività ha preso l’avvio a Milano, nel 2012, prendendo lo spunto dall’idea di tre amici – Marco Romano, Filippo Morandotti e Fancesco Verdinelli – accomunati dalla passione per la bicicletta, intesa come icona di stile senza tempo, attraverso cui vivere la città.

 

 

 

Interpretando le attese dei nuovi consumatori smart, dinamici e costantemente interconnessi, abituati ad utilizzare la bicicletta per rapidi e frequenti spostamenti nel centro urbano, il brand De Wallen propone capi d'abbigliamento che uniscono la qualità del made in Italy a superiori performance di carattere tecnico (es.: catarifrangenza, impermeabilità, traspirabilità, ecc.). Ma non basta: per lo sviluppo delle nuove collezioni De Wallen si avvale del supporto di communities di bikers dislocati in tutto il mondo, che presentano la loro wish-list e testano i prototipi prima del lancio sul mercato. In pratica, il brand si propone come “dilatatore” di forme di engagement e catalizzatore di energie creative disseminate all’interno di un’ampia rete di attori, coinvolti nella co-creazione del valore.

 

 

 

 

3. Sliding Doors: domande ancora aperte

Alla luce di queste considerazioni, si può ipotizzare che l’engagement sia un fenomeno che riguarda l’universo della comunicazione, più che il semplice contesto del marketing e delle vendite. E’ tuttavia difficile trarre conclusioni definitive: in questo ambito le riflessioni a livello teorico sembrano per ora collegate ad «un corpo relativamente sparso» (Hollebeek e Chen, 2014) di ricerche sperimentali e di osservazioni empiriche sul tema, dalle quali emergono per altro significativi interrogativi ancora aperti. E’ una situazione che evoca l’incipit narrativo (le Sliding Doors) dell’omonimo film con Gwyneth Paltrow: l’attimo di sospensione in cui le porte della metro sono ancora aperte, ma dal quale prenderanno avvio due racconti completamente differenti, a seconda che la protagonista riesca a salire in tempo sul treno che sta partendo oppure rimanga  indefinitamente bloccata sulla banchina.

 

 

3.1. Fidelizzare o deliziare? La corsa più pazza di MediaWorld

Un primo spunto di discussione è offerto dal nodo Loyalty/Delight: come suggeriscono i risultati delle ricerche di Sashi (2012), il cliente delighted, piacevolmente sorpreso e deliziato da un’esperienza inattesa, che supera di gran lunga le sue aspettative nei confronti del brand, risulta curiosamente più engaged del cliente loyal, costante nelle sue scelte d’acquisto e orientato a confermare la preferenza per i prodotti della stessa marca, ma in genere scarsamente incline a dedicarle del tempo, facendo advocacy. La retention può essere infatti il risultato di una relazione durevole, priva però di legami emozionali. Un’indicazione di questo tipo ha delle rilevanti implicazioni a livello manageriale: suggerisce che le carte fedeltà e il meccanismo delle raccolte punti finiscono per premiare il rassicurante e poco fantasioso bacino dei clienti abitudinari e già acquisiti, senza incentivare in alcun modo quei soggetti che, in presenza di opportune stimolazioni, sarebbero disposti a trasformarsi in veri e propri “ambasciatori” del brand.

 

Un tentativo di vivacizzare la logica un po’ stantia della fidelity card, deliziando i clienti con  soluzioni inaspettate, è rappresentato dall’evento La corsa più pazza di MediaWorld, realizzato dall’omonima catena di elettronica per festeggiare i 25 anni di attività in Italia (https://www.mediaworld.it/mw/informazioni/Corsa-25anni): tra i clienti dotati di fidelity card, che avevano effettuato acquisti tra la fine di giugno e l’inizio di luglio del 2016, ne sono stati estratti nove, ai quali è stata offerta la possibilità di effettuare una “spesa gratuita” presso lo store di Curno in provincia di Bergamo. Alla data convenuta, dopo aver indossato un’ingombrante maschera di gommapiuma, i partecipanti – suddivisi in tre batterie – hanno avuto a disposizione cento secondi di tempo, per correre attraverso i reparti e collocare il maggior valore possibile, in prodotti di elettronica, all’interno di un contenitore dedicato. A fronte di un limitato investimento, l’iniziativa ha avuto un’eco mediatica sorprendente, in particolare sui social.

 

 

 

Esempi di questo tipo sollecitano importanti interrogativi: si tratta infatti di capire se il consumer brand engagement è una situazione intermittente e discontinua, come un circuito elettrico, che può essere di volta in volta chiuso oppure aperto (è questo l’implicito sottointeso nelle metriche “native” messe a disposizione dai diversi social network), oppure è un fenomeno da considerare secondo un’ottica di lungo periodo, ossia come un percorso di carattere dinamico e processuale, di cui misurare la differente intensità momento per momento e a seconda dei contesti. Nella prima ipotesi, l’engagement si configura come una sorta di insight, di rivelazione, che porta il consumatore ad aprire repentinamente lo sguardo verso il brand e ad accendersi di entusiasmo nei suoi confronti. Nella seconda ipotesi, sembra invece più corretto parlare di un “ciclo di vita” dell’engagement, contrassegnato da fasi successive e da differenti livelli di intensità.

 

 

3.2. Negative approach. Apple vs Samsung

In secondo luogo, andrebbero considerate le “valenze” (positive vs negative) del consumer brand engagement: è un tema che la gran parte degli studiosi ha finora trascurato, dando per scontata l’identificazione tra elevati livelli di engagement e il carattere entusiasmante e straordinario delle esperienze vissute dal consumatore (Vivek, 2011). Higgins tuttavia, riconosce che, nel senso più ampio del termine, essere engaged significa semplicemente «essere coinvolti, occupati e interessati a qualcosa» (Higgins, 2006, p. 4), una condizione che può assumere sia valenze positive che valenze negative. Un conto è postare in un blog un messaggio favorevole nei confronti di un brand, altra cosa è organizzare azioni pubbliche contro la stessa azienda: in entrambi i casi si tratta di forme di engagement, cioè di espressioni comportamentali che, a prescindere dal semplice acquisto, sono sostenute da driver motivazionali, ma gli effetti sono decisamente differenti.

 

L’engagement positivo si traduce in conseguenze favorevoli – sia finanziarie che non finanziarie – per l’azienda, ma le medesime azioni (es.: passaparola, blogging, recensioni online) possono avere un impatto negativo, qualora siano contrassegnate da un contenuto fortemente critico, oppure nel caso di mancata corrispondenza tra le attese generate nel nuovo cliente e le prestazioni effettivamente erogate dal brand (van Doorn et al., 2010). Le espressioni negative dell’engagement non sembrano essere, in ogni caso, il riflesso speculare di quelle positive: come suggeriscono i risultati di una ricerca “netnografica” condotta da Hollebeek e Chen (2014) sugli appartenenti a communities online di fan e di detrattori della Apple e della Samsung, il consumatore negativamente engaged offre più spesso argomenti razionali – legati a specifiche e circostanziate situazioni di disagio – per giustificare le sue critiche nei confronti del brand, laddove nel consumatore positivamente engaged sembrano nettamente prevalenti le componenti emozionali ed affettive.

 

3.3. Burnout del consumatore engaged: che fine fanno gli “attivisti”?

E ancora: non è chiaro se la relazione tra engagement e loyalty segua un percorso rettilineo (all’aumentare dell’engagement cresce in misura corrispondente anche la loyalty) o non piuttosto curvilineo. Si potrebbe infatti ipotizzare una sorta di burnout  del consumatore engaged, il quale, oltrepassata una soglia ottimale di coinvolgimento (cognitivo, affettivo, comportamentale), ritirerebbe ogni precedente “investimento”, riducendosi a una posizione di stand-by, di stallo, di attesa, che potrebbe tradursi in una ridotta propensione a ri-acquistare i prodotti dello stesso brand. Estendendo al nodo engagement/loyalty i risultati delle ricerche empiriche sul tema del burnout in ambito occupazionale, Linda Hollebeek (2011b) ipotizza una possibile classificazione dei consumatori in quattro segmenti:

gli apatici, nei quali l’elevata propensione al ri-acquisto – a fronte di un basso livello di engagement – sembra seguire un andamento inerziale, che esclude in linea di principio elevati livelli di fatica e di stress. E’ presumibile che comportamenti di questo tipo prevalgano in relazione a beni di prima necessità oppure quando vi sia la percezione di un limitato range di alternative disponibili;

– i consumatori che operano secondo meccanismi di exit, in base alla nota definizione di Hirschmann: caratterizzati da bassi livelli di engagement e di loyalty, e dunque non soggetti al rischio di burnout, fanno scelte utilitaristiche, contrassegnate da un calcolo degli interessi a breve termine (es.: se il prezzo di un prodotto aumenta, si sceglie un’alternativa più economica);

gli attivisti: si tratta di soggetti highly engaged e fidelizzati, particolarmente apprezzati per le loro caratteristiche dalle aziende, ma in realtà a rischio burnout, inclini cioè a manifestare più alti livelli di fatica e di stress in conseguenza dell’impegno profuso nelle interazioni dirette con il brand;

i variety seekers: soggetti highly engaged, ma sempre a caccia di novità e sorprese e dunque orientati a frequenti switch tra brand appartenenti alla medesima categoria. La volubilità che li caratterizza rende difficile ricondurre ad un singolo brand eventuali situazioni di stress e di fatica.

 

 

3.4. Engagement: ha sempre ricadute positive? Il caso del Porsche Cayenne

Non è chiaro, infine, se un elevato livello di engagement abbia sempre ricadute positive per le imprese (cfr. Libai, 2011). Si pensi al caso del Porsche Cayenne, valutato negativamente – nei test che ne precedettero il lancio sul mercato – dai consumatori highly engaged, perchè ritenuto poco in linea con il profilo tradizionale del brand. La casa tedesca scelse opportunamente di non seguire il consiglio dei clienti maggiormente coinvolti e appassionati: contravvenendo alle negative previsioni degli highly engaged, il Cayenne divenne in breve tempo uno dei prodotti di maggior successo della Porsche. La questione non è di poco conto: come osserva Libai, gli highly engaged rappresentano presumibilmente una minoranza particolarmente attiva – ma non necessariamente rappresentativa – dell’intera community di appassionati che si raccolgono attorno a un brand;  non è chiaro inoltre se il passa-parola generato da questi particolari utenti raggiunga a cascata il consumatore mainstream oppure si avviti indefinitamente attorno a se stesso, venendo condiviso all’interno di piccole tribù di appassionati, fortemente coese al proprio interno, ma scarsamente orientate ad aprirsi ad un più ampio orizzonte di scambi comunicativi e di confronti con altri soggetti.

 

 

4. Conclusioni: come “mettere all’opera” i consumatori?

Per trovare soluzioni condivise ai numerosi interrogativi che emergono, tanto dalle riflessioni teoriche, quanto dalle osservazioni empiriche, è opportuno a nostro parere affrontare con maggior decisione due questioni ancora aperte:

– si tratta innanzitutto di capire quali sono i driver dell’engagement. In altri termini, è utile chiarire che cosa spinge i consumatori a spendere del tempo a favore di un brand, a titolo completamente gratuito e senza la prospettiva di un ritorno immediato delle energie investite;

– in secondo luogo, è utile definire in termini più chiari la relazione tra consumatori e brand, mettendo a fuoco le caratteristiche che una marca deve possedere, per risultare engaging agli occhi dei suoi interlocutori. E’ evidente infatti che, se vi sono dei consumatori engaged nei confronti di un brand, ciò avviene perché è il brand stesso a “mettere all’opera” i consumatori, sollecitando investimenti di vario tipo nei suoi confronti.

 

Cercheremo di approfondire questi aspetti, offrendo vari esempi e indicazioni operative, in un prossimo contributo. Stay tuned!

 

Per approfondimenti (e riferimenti bibliografici) rinvio al mio articolo “Coinvolgimento del consumatore nei confronti del brand: nodi concettuali e prospettive di ricerca”, pubblicato in Tigor. Rivista di scienze della comunicazione (per il download gratuito: clicca qui).

 

A cura di

Gabriele Qualizza

Redattore Senior

Ha collaborato con Brandforum dal 2005 al 2022

Ha lavorato in comunicazione per più di vent'anni, unendo l’interesse per il marketing alla passione per le immagini e per la scrittura. Un angolo prospettico particolare, che gli ha dato la possibilità di "raccontare" marche, processi organizzativi, storie di vita, sogni, passioni, desideri, estraendo le emozioni dai prodotti più diversi: navi da crociera, oggetti di design, stili di vita, home appliances, prodotti del fashion system...

Ha svolto altresì con immensa passione e dedizione attività di ricerca, didattica, consulenza e formazione manageriale, fino alla sua prematura scomparsa ai primi di ottobre 2022.

Si è occupato in particolare di retail marketing, consumer experience, generazioni digitali, approcci non convenzionali alla comunicazione d’impresa. Ha collaborato con l’Università di Trieste (come "assegnista") e con l’Università di Udine, presso la sede di Gorizia; faceva inoltre parte dell’Osservatorio Storytelling (Università di Pavia). Ha conseguito un dottorato di ricerca con tesi in Economia e gestione delle imprese, è stato titolare di alcuni assegni di ricerca (Udine, Roma “La Sapienza”) e ha ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale (seconda fascia) per il settore SECS-P/08.

Ha pubblicato Oltre lo shopping. I nuovi luoghi del consumo: percorsi, esplorazioni, progetti (2006), Transparent Factory. Quando gli spazi del lavoro fanno comunicazione (2010) e Facebook Generation. I “nativi digitali” tra linguaggi del consumo, mondi di marca e nuovi media (2013). E' inoltre autore di articoli e ricerche per le riviste Mercati e Competitività, Sinergie, Mediascapes Journal, Micro&Macro Marketing.

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