I Top Brand in fuga da Mosca: ecco quali brand hanno lasciato la Russia
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I Top Brand in fuga da Mosca: ecco quali brand hanno lasciato la Russia
21/07/2022

TURISMO

Il conflitto tra Ucraina e Russia ha provocato molte conseguenze: una fra queste, la “fuga” di alcuni top brand dal territorio russo per protesta.

Negli ultimi mesi, a fronte della fragile e travagliata situazione geopolitica internazionale che vede direttamente coinvolte Ucraina e Russia, centinaia di top brand hanno deciso di agire concretamente in segno di protesta nei confronti delle decisioni prese dal Governo russo. Può trattarsi di un nuovo caso di “brand activism”?

Facciamo un passo indietro: che cosa è accaduto

 
24 febbraio 2022: ha inizio la cosiddetta “operazione militare speciale” del presidente russo Putin contro l’Ucraina. La “guerra delle sanzioni” da parte della comunità internazionale non si è fatta attendere e ad essa si sono uniti moltissimi grandi brand, che da subito hanno deciso di schierarsi, limitando o sospendendo vendite e servizi sul territorio russo. Le prime a lasciare Mosca sono state tre società del settore petrolifero ed energetico, British Petroleum, Shell e Equinor, seguite poi dai colossi di tanti altri comparti, dal food&beverage al tech, dal lusso all’automotive, dall’arredamento all’entertainment.

Uno studio della Yale School of Management ha registrato, in tempo reale, i nomi delle aziende coinvolte, che da poche decine sono ormai diventate diverse centinaia in tutto il mondo. Fra i brand italiani, spiccano Eataly, Eni, Ferrero, Gucci, Lavazza, Prada e YOOX, mentre a livello internazionale si possono citare Adidas, Amazon, Apple, BMW, Coca-Cola, eBay, Ikea, McDonald’s, Netflix, Nike, PayPal, Spotify e Starbucks.

Figura 1 – Alcuni dei brand che hanno lasciato la Russia (Fonte: Yale School of Management).

Tuttavia, nell’elenco dei ricercatori di Yale non mancano i brand che hanno preferito continuare più o meno regolarmente le loro attività in Russia. Fra i grandi nomi, è stato “Business as Usual” ad esempio per Auchan, Ferrari, Hard Rock Café, Lacoste, Liu Jo e Unicredit.

Due casi italiani a confronto: Ferrari e Liu Jo

 
A tal proposito possiamo notare come le posizioni assunte da due big brand italiani, Ferrari e Liu Jo, risultano a questo proposito emblematiche poiché le due aziende si sono dichiarate rispettivamente favorevole e contraria all’uscita del proprio brand dalla Russia.

Da un lato, la nota casa di Maranello ha sospeso la produzione per il mercato russo e ha donato 1 milione di euro a favore della popolazione ucraina, veicolati attraverso la Regione Emilia-Romagna in collaborazione con Croce Rossa e UNHCR. Altri aiuti sono stati previsti anche per sopperire alle esigenze dei profughi ospitati nell’area vicina alla sede della società. Diametralmente opposte le considerazioni che hanno portato il brand di moda Liu Jo a non abbandonare la Russia, essendo questo paese uno dei maggiori clienti del Made in Italy, con una incidenza significativa sull’export societario. L’azienda ha inoltre ritenuto importante preservare un ricco patrimonio di rapporti commerciali costruito negli anni con gli imprenditori locali, che hanno contribuito a diffondere la notorietà del brand nel loro paese.

Nei prossimi mesi sarà possibile valutare concretamente come queste due azioni, così divergenti, abbiano in effetti prodotto ripercussioni in termini di valore e di reputazione del brand, sia agli occhi del pubblico che agli occhi degli azionisti.

La risposta russa alla chiusura di McDonald’s e Ikea

 
Una vasta eco mediatica è stata riservata alle conseguenze delle scelte di McDonald’s e di Ikea sul territorio russo.

A 32 anni dall’apertura del primo locale in piazza Pushkin a Mosca, uno dei simboli della fine della Guerra Fredda, la famosa catena di fast food americana, agli inizi di marzo, ha deciso di chiudere tutti i suoi 850 ristoranti in Russia, per una situazione considerata “non più sostenibile e coerente con i valori del gruppo”. Dal canto suo, il colosso svedese ha sospeso le sue attività, dichiarando che “la guerra ha un enorme impatto umano e provoca anche gravi interruzioni della catena produttiva e commerciale” e devolvendo oltre 37 milioni di euro a favore dei rifugiati ucraini.

La risposta di Putin tuttavia non si è fatta attendere: “nazionalizzare” decine di brand che hanno sospeso la loro attività in Russia, a partire proprio da McDonald’s e Ikea. I due iconici “archi dorati” su sfondo rosso sono diventati una grande “B”, la “V” dell’alfabeto cirillico che sta per Djadja Vanja, in russo “Zio Vanja”. Dal titolo di un’opera di Anton Cechov è così nata l’alternativa locale alla catena americana. Allo stesso modo, sarebbe in arrivo anche “Idea”, il marchio-clone della multinazionale svedese, la cui registrazione sembra essere già stata depositata presso gli uffici preposti.

A questo proposito, viene da chiedersi quale potrà essere il riscontro da parte dei consumatori russi: basterà creare dei cloni al momento riscontrabili al solo livello visivo per sopperire alla fiducia riposta nei brand originali in anni e anni di “frequentazione”?

Figura 2 – I loghi di “Zio Vanja” e “Idea”.

Riflessioni conclusive: brand activism o social washing?

 
Stiamo quindi vedendo come siano tanti i brand ad aver preso posizione. E lo hanno fatto non solo per adeguarsi alle sanzioni internazionali, ma anche per esprimere la loro preoccupazione e una forte vicinanza nei confronti delle vittime del conflitto, mettendo in secondo piano le possibili ripercussioni economiche a favore dei valori aziendali e della percezione dei consumatori.

Si può quindi affermare che con la guerra in Ucraina sia ormai giunto a maturazione il fenomeno del brand activism? Come teorizzato da Philip Kotler nel suo omonimo bestseller Brand Activism del 2018, ciò che conta per le aziende oggi è come il brand vive e agisce nel mondo reale, anche rispetto a questioni fortemente politicizzate. E i precedenti sono famosi, a partire da Nike che nel 2018 scelse come testimonial il controverso Colin Kaepernick, ex quarterback dei San Francisco 49ers e primo giocatore a inginocchiarsi in campo durante l’inno in segno di protesta contro le discriminazioni razziali.

Senza dubbio, scegliere il brand activism può essere rischioso per le aziende, soprattutto quando non si rispetta la prima regola di Kotler: per agire, bisogna prima di tutto essere autentici. In caso contrario, si rischia di cadere nel social washing, ossia nel semplice “lavarsi la coscienza” dandosi una superficiale immagine etica e sfruttando, solo in maniera approssimativa, le tematiche sociali.

Probabilmente, per le società che oggi si sono esposte sulla questione del conflitto fra Russia e Ucraina si apre un futuro sempre più indissolubilmente legato all’impegno sociale, pena la perdita di reputazione e di fiducia da parte dei consumatori.

A cura di

Matteo Vetri
Dopo il diploma di Liceo Scientifico, attualmente è iscritto al corso di Laurea Triennale in Linguaggi dei Media presso l’Università Cattolica di Milano. Nel tempo libero si interessa di cinema, sport e musica, non necessariamente in quest’ordine.

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