Ikea…cambia idea! (e riconsidera i “costi” della coerenza)
Brand Naming
Ikea…cambia idea! (e riconsidera i “costi” della coerenza)
06/07/2012

Fabio Pasquetto, Redazione Brandforum.it
Ricordate l’articolo sugli “scherzi” linguistici nel brandnaming ed in particolare sul caso IKEA?
Ebbene, IKEA ha fatto dietro-front modificando alcuni nomi che altrimenti sarebbero risultati a dir poco imbarazzanti…

 

Ricordate quanto era stato scritto nel precedente articolo sugli “scherzi” linguistici nel brandnaming ed in particolare sul caso IKEA dove apparentemente persino le più elementari regole del naming trovavano eccezione…? 

 

Ebbene in un recente caso apparso su Corriere della Sera (Esteri)  viene dato ampio risalto al fatto che la multinazionale dei mobili svedese abbia fatto dietro-front modificando in Thailandia alcuni nomi che altrimenti sarebbero risultati a dir poco imbarazzanti.

Si parla tanto per fare un esempio  di “REDALEN” un modello di letto che in Thai è molto vicino ad una parola usata per indicare “amplesso” e “JATTEBRA” pianta in vaso la cui traduzione nel gergo Thai allude a rapporti sessuali. Ma nelle realtà il lavoro di check linguistico e conseguente adattamento ha riguardato tutti il catalogo IKEA e, come verrà precisato innanzi, è costato non pochi anni di lavoro.


Nell’articolo precedente si accennava alla tipologia di inconvenienti per lo più generati dalla fonetica e quindi dal suono di alcuni fonemi che risultano particolarmente ostici o che assumono significati diversi a seconda del contesto linguistico nazionale.
In più vi è da ricordare che la lingua svedese (appartenente al gruppo scandinavo a propria volta appartenente al gruppo settentrionale germanico) è un idioma che utilizza molte consonanti con una pronuncia altamente instabile essendo molte riassorbite nella pronuncia ed altresì successioni di vocali con numerose varianti (dieresi, simboli di doppia vocale ecc.)  che rendono per la maggior parte dei gruppi linguistici europei (ad eccezione forse dell’ugro-finnico e uralo-altaico) piuttosto inusuale il loro impiego.


Nel caso della lingua thai la questione assume contorni ancora più complessi, infatti il thai è una lingua che utilizza una molteplicità di toni e sillabe la cui minima variazione finisce per cambiarne completamente il significato, quindi la maggior parte dei problemi sorgono quando eseguendo la traslitterazione non viene perfezionata la trascrizione fonetica, ovvero si assegna a ciascuna lettera il simbolo dell’alfabeto corrispondente, trascurando l’effetto fonetico per cui il fonema traslitterato presenta un suono completamente diverso e con esso assume anche un significato diverso.
Incidentalmente ricordiamo che vi sono altre lingue che utilizzano simbologie più complesse quali gli ideogrammi ad esempio nella lingua cinese e giapponese , sebbene entrambi hanno sviluppato col tempo dei sistemi per adattarli ai fonemi latini e comunque occidentali con risultati abbastanza curiosi ma di questi ultimi avremo modo di parlarne diffusamente in articoli successivi.


La consuetudine della casa svedese di far ampio ricorso all’idioma scandinavo risale agli albori dell’azienda, precisamente – come cita l’articolo – agli anni 50 per decisione del fondatore Ingvar Kamprad, utilizzando anche nomi delle vicine lingue Norvegesi (per le camere da letto) e Danesi (per i zerbini e coprivater) ciò in quanto i fonemi scandinavi avrebbero consolidato nel brand il carattere  di unicità.
La lettura di questa motivazione apparirebbe abbastanza convincente, senonché resta il fatto che questa politica in un certo qual modo “estremizzata” porta – come avevamo visto anche in chiave ironica –  a non pochi inconvenient.
Nel caso della Thailandia l’adattamento alla lingua locale è costato non poco alla multinazionale svedese tanto che lo studio per l’adattamento dei nomi è durato ben quattro anni (ndr).


Senza entrare nella casistica complessa della brand-architecture utilizzata da Ikea, tuttavia moltissimi dei nomi presenti a livello di prodotto risultano nomi semplicemente descrittivi o con radice o suffisso descrittivo ad esempio della particolare essenza di legname utilizzato o tessuto oppure dell’oggetto stesso, in tutti questi casi basterebbe declinare il sostantivo descrittivo nelle lingue locali per evitare almeno in parte il problema, rimarrebbero fuori i nomi proprio di località, laghi, montagne o geografici e quelli propri di persone o inventati, per quelli naturalmente il problema persisterebbe almeno in linea di principio.
Forse un’altra valida soluzione potrebbe essere quella di impiegare maggiormente brand gamma o di linea e accompagnarli con sigle o numeri per i singoli prodotti (almeno per quelli ovviamente che risultino coerenti con questo tipo di impostazione di brand architecture) in tal modo diminuirebbe il numero di nomi impiegati e, quindi, il numero di problematiche di questo tipo.


Più in generale vi è da chiedersi se in un brand ampiamente riconosciuto quanto a “svedesità” sia ancora attuale o comunque vantaggiosa una rigida brandnaming policy di questo tipo, laddove un’impostazione più mitigata  renderebbe più semplice la scelta e la comunicazione stessa, senza nulla togliere alla riconoscibilità o che dir si voglia fascino scandinavo Ikea la cui brand awareness è oramai ampiamente riconosciuta a livello mondiale.


Come avevamo avuto modo di osservare,  il brand “Svezia” svolge già egregiamente la funzione di endorsement nei colori corporate ed inoltre in tutta la comunicazione  visiva si fa ampio ricorso a contesti , immagini di luoghi, natura ecc tipicamente scandinavi, viene quindi quasi la sensazione che  questa rigida politica quasi a dover  “imporre” tale tipologia di nomi (incurante o quasi di quanto e come il pubblico possa trovarsi a proprio agio) finisca per far assumere al  brand Ikea  come un vago retrogusto di “neocolonialismo da brand ( chissà forse retaggio di un vecchio passato che vedeva il Regno di Svezia primeggiare sul panorama scandinavo)  dove la “svedesità” debba essere avvertita ovunque e a tutti i costi (ma proprio tutti!) una sorta di “imposizione” accompagnata da una  scarsa considerazione per ciò che il pubblico percepisca (al di fuori dello stretto landmark scandinavo) , un porsi quindi  del brand al di sopra del pubblico.


Incidentalmente desta curiosità il fatto che alla lingua Danese sia stato riservato in alcuni casi il non certo gratissimo compito di nominare copriwater e zerbini (eterna rivalità della Svezia e relativo senso di superiorità verso i cugini danesi da sempre considerati chiassosi e furbetti). Preciso che la considerazione appena esposta non è che una sensazione e nulla di più che ritrova qualche supporto probabilmente nel passato di quegli anni e dal non poco discusso carattere del padre fondatore di Ikea; si parla del resto degli anni della guerra fredda, di anni sbiaditi che ancora oggi mostrano una patina confusa e destinati forse all’oblio insieme ai tanti segreti ancora nascosti di quegli anni… e con questo mi fermo per non entrare nel “fantabranding”.

 

Tornando al caso thai, con questo precedente sembra che a Stoccolma l’aria stia un po’ cambiando.

Non che non vi siano dei precedenti ma appaiono abbastanza circoscritti a casi in cui proprio non se ne poteva fare a meno, cito ad esempio la “pausa caffè” che in alcuni paesi è riportata tranquillamente “alla svedese” (FIKA [fee:ka] = A coffee break, usually accompanied by a little sandwich or a nice sweet roll), mentre sul sito italiano appare più decorosamente come “pausa caffè” (La pausa caffè è un momento importante della giornata. Solitamente il caffè viene accompagnato a sandwich o dolci).


Oggi naturalmente è tutto diverso, da tempo infatti IKEA appare sempre molto attenta nella comunicazione rimarcando un’attitudine “inclusiva” e niente affatto “esclusiva”  in modo da poter intercettare il più vasto pubblico (ricordiamo la riuscitissima campagna per le famiglie di fatto e per le unioni omosessuali) .

Il caso della Thailandia costituisce forse un esempio di paese forse poco tollerante verso le allusioni sessuali, però la presenza sempre più su scala mondiale del colosso svedese non può non far tener conto degli effetti che suddetti inconvenienti linguistici finiscono per produrre.

Intendiamoci Ikea non rappresenta l’unico esempio, ma senza dubbio costituisce un caso molto soggetto – per i motivi esposti – a questi eventi.

A cura di

Fabio Pasquetto

E' stato titolare di IPGRADE S.r.l, società  specializzata in Intellectual Property, esperto di naming.

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