Emozioni al lavoro: come gestirle al meglio dentro e fuori l’ufficio
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Emozioni al lavoro: come gestirle al meglio dentro e fuori l’ufficio
05/04/2022

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INTERVISTA CON L'AUTORE

Come gestire al meglio le emozioni in ambito lavorativo? Lo abbiamo chiesto a Francesca Romana Puggelli, autrice di “Emozioni al lavoro”.

Qual è il minimo comune denominatore tra un commesso, un avvocato, un artigiano, un giornalista, il dipendente di un call center, un insegnante, il membro di un team e un manager? Di primo acchito, sembrano professioni molto diverse tra loro, svolte secondo modalità che dipendono da numerose variabili. Tuttavia, possiamo e dobbiamo riscontrare una costante: un commesso deve mostrarsi entusiasta per non scoraggiare i clienti, un insegnante deve apparire attento e organizzato, il membro di un team deve cercare di essere sempre disponibile nei confronti dei colleghi. Ognuno di loro deve quindi imparare a gestire e comunicare le proprie emozioni, regolate in base alle norme implicite, sottese e prescritte da ogni contesto lavorativo.

Proprio di questo abbiamo parlato con la bestsellerista Francesca Romana Puggelli, docente di Psychology of Interactive Media al Master of Science in Applied Psychology presso la University of Southern California. Il suo ultimo libro, Emozioni al lavoro (Sole24Ore), offre uno scorcio innovativo sul rapporto tra ragione e impulso emotivo: non più di superiorità del primo sul secondo, ma piuttosto di compenetrazione e reciproco supporto, perché, come campeggia in quarta di copertina, «siamo creature emozionali sia dentro che fuori l’ufficio» (per visionare la scheda del libro presente nella sezione Books del nostro sito, CLICCA QUI).

La genesi di Emozioni al lavoro: perché non reprimere l’aspetto emotivo

 
La riflessione dell’autrice germoglia in piena pandemia: «Durante il covid mi è capitato spesso di riflettere su come le emozioni siano state sollecitate nelle diverse situazioni, da quella personale, familiare, a quella lavorativa. Ho pensato a me stessa, a mio marito, ai miei amici, ai miei colleghi, e a come stessimo affrontando le difficoltà: mi è sembrato che le emozioni giocassero un ruolo fondamentale. D’altra parte, al lavoro si sta a contatto con altri esseri umani per almeno otto ore al giorno: si tratta quindi di un’esperienza altamente emozionale».

Sebbene la nostra cultura abbia sovente cercato di reprimere le emozioni in tale ambito, oggi dobbiamo rivendicare la loro rilevanza in quanto forma di comunicazione: quando rivolte verso noi stessi, «ci spiegano come ci sentiamo di fronte a un evento»; quando rivolte all’esterno, ci permettono di esprimere agli altri il nostro stato d’animo. Cuore e ragione non sono più in un rapporto dicotomico: anzi, come spiega Emozioni al lavoro, lo sforzo all’ascolto, al riconoscimento, alla comprensione e al monitoraggio delle emozioni rappresenta il presupposto per sviluppare comportamenti razionali.

Mettersi in gioco: benessere garantito al lavoro

 
D’altronde, serenità e benessere sul luogo di lavoro garantiscono un incremento della produttività. A questo scopo, per aumentare il coinvolgimento personale, le aziende attingono sempre più spesso alla dimensione ludica: «Il gioco è una parte fondamentale delle nostre relazioni. Anche in azienda si ricorre ad alcuni elementi di questo mondo, applicandoli in altri contesti per favorire partecipazione e coinvolgimento».

Il volume Emozioni al lavoro si presenta come un manuale pratico, che incoraggia il fruitore non solo a una lettura attiva, ma anche a sfidare se stesso. «Non volevo scrivere un saggio da accademica per accademici, – spiega l’autrice – ma un libro con un respiro più ampio, utile a tutti, e i cui i capitoli possano essere letti slegati gli uni dagli altri: in questo modo, ciascuno può cominciare da quello più calzante alle sue esigenze. È stato quindi naturale scegliere di aggiungere test di autovalutazione e box di approfondimento».

Pandemia: tra comunicazione, consapevolezza sociale e autenticità

 
Riscoprire il benessere al lavoro risulta dunque essenziale nel complesso momento storico che stiamo attraversando. Un periodo in cui abbracci e strette di mano hanno lasciato il posto a chat e videochiamate, e in cui siamo stati costretti a rivedere anche il nostro modo di comunicare: nelle interazioni da remoto, infatti, i modulatori non verbali (come gesti, postura, posizione, tono di voce) sono fortemente limitati. Eppure, essi rappresentano un supporto fondamentale per le nostre parole, oltre a un veicolo più spontaneo, veritiero e meno controllabile dei nostri stati d’animo. «L’espressione delle emozioni è una delle funzioni principali della comunicazione corporea, che permette anche di integrare e indirizzare il verbale». A distanza, gran parte del non verbale viene perso, ma per Puggelli possiamo porvi rimedio: ad esempio, accendere la telecamera, guardarsi negli occhi, rivolgersi alle persone chiamandole per nome, fare qualche battuta, sorridere, prestare attenzione agli indicatori vocali sono soluzioni che permettono di avvicinarsi il più possibile a una replica dello scambio in presenza.

«Una skill importante – continua la docente – è la consapevolezza sociale, ossia riuscire a leggere le emozioni altrui. Nel contesto lavorativo è un’abilità da potenziare: se per esempio il manager assegna alcuni task al team e si accorge che il team è restio a svolgere le mansioni, deve agire e cercare di capire quale sia il problema, magari fissando un caffè virtuale per discutere la situazione. Deve cioè trovare delle occasioni per ricreare quelle casual conversation che prima avvenivano passando negli uffici dei dipendenti o incontrandoli in ascensore. L’empatia non deve diminuire con la distanza, anzi, dobbiamo potenziarla».

Con la pandemia, la consapevolezza sociale è peggiorata: non incorriamo più in quelle situazioni informali in cui possiamo rilevare informazioni sullo stato emotivo dei colleghi. A questo si aggiunge il fatto che le persone abbiano dovuto affrontare anche altre criticità, tra cui la gestione stessa delle proprie emozioni. Possiamo però allenare questa competenza, innanzitutto provando a metterci nei panni degli altri, uscendo dalla nostra sfera individuale ed esercitando l’ascolto attivo.

Abbiamo inoltre guadagnato un aspetto importante, l’autenticità: «Il lavoro è diventato più umano,  nella vita familiare di ognuno di noi (il bambino che entra durante una riunione, il cane che abbaia, il postino che citofona…). Il confine tra vita lavorativa e personale è diventato più labile. Queste incursioni nel privato hanno creato un clima più informale e più autentico che ha avuto come conseguenza relazioni più affiatate con i colleghi. È importante mantenere questa autenticità anche quando si ritorna in ufficio, perché porta a un miglioramento delle relazioni e a un ambiente più sereno, stimolante».

Dissonanza emotiva: come limitarla

 
La precarietà della pandemia ha spesso generato emozioni non rispondenti al contesto lavorativo in cui operiamo. Definiamo questa contraddizione dissonanza emotiva, tipica di alcune professioni in cui è necessario mostrarsi felici nel costante contatto con i clienti (customer service) e in cui l’entusiasmo può essere indice della performance professionale. Ad esempio, immaginiamo la situazione di un’operatrice di call center, che ha appena avuto una discussione con il manager in quanto è arrivata in ritardo a causa del figlio a casa con la febbre: alle preoccupazioni legate alla sua vita privata e professionale subentra il dovere di presentarsi gentile e raggiante al telefono per soddisfare le esigenze del suo lavoro.

«Purtroppo – spiega Puggelli – non esistono situazioni in cui è possibile allentare il controllo sulle emozioni. Anzi, per imparare a incanalare quelle negative in modalità positive e costruttive, non dobbiamo controllarle ma gestirle: è fondamentale ascoltarle, riconoscerle e capirle, piuttosto che sfogarci sui nostri interlocutori ottenendo benefici solo sul breve periodo».

Lavorare a distanza: quando la scelta è del singolo

 
Trovare un bilanciamento nel lavoro a distanza può essere complesso. Da un lato, tra i vantaggi troviamo la possibilità di trascorrere più tempo con i familiari, una maggiore flessibilità, l’abbattimento dei tempi di spostamento, la riduzione dei costi e l’opportunità di coltivare le proprie passioni. Di contro, tra gli svantaggi annoveriamo una minore attività motoria e i conseguenti problemi fisici, l’iperconnessione, l’isolamento sociale, la difficoltà nel mantenere separate vita privata e professionale e i potenziali ostacoli che la mancanza di conoscenza del digitale comporta.

Se nelle prime fasi della pandemia siamo stati costretti a lavorare da remoto, oggi la maggior parte dei settori sta adottando una soluzione ibrida. Ci sono lavori che tradizionalmente si svolgono in smart working, come i servizi di assistenza ai clienti. Se ne sono aggiunti altri, alle esigenze dei quali l’online riesce a far fronte.

Quando il singolo può scegliere la modalità di lavoro, è sua responsabilità prendere la decisione più conforme ai suoi bisogni. Alcuni indicatori da considerare sono le competenze comunicative e tecnologiche, la necessità più o meno marcata di interazioni sociali, la capacità di rimanere concentrati e di essere efficienti a distanza.

Gen Z e smart working: i consigli dell’autrice di Emozioni al lavoro

 
La contingenza si è riversata impetuosa anche sui giovani, costretti a muovere i primi passi nel lavoro lontani da uffici e scrivanie. Di norma, intraprendere una professione provoca due emozioni contrapposte: da un lato entusiasmo, dall’altro ansia, scoramento e inadeguatezza. «Da remoto, tutto sembra ancora più difficile – commenta l’autrice di Emozioni al lavoro. – Il mio consiglio per la Generazione Z è di essere pazienti e tolleranti con sé stessi, prendendo il tempo necessario per adattarsi alla nuova situazione. Lo smart working, oggi molto comodo per le aziende, è una realtà da affrontare valorizzandone i vantaggi. Di fronte agli svantaggi, invece, bisogna pensare che le sfide incoraggiano la crescita personale, perché aumentano la resilienza contro lo stress».

«Quando un giovane sceglie un posto di lavoro – conclude Puggelli – è necessario che si informi sui valori e sulla cultura aziendale, che non abbia paura di fare domande, e che non abbia la sindrome dell’impostore: da nuovo dipendente, deve essere proattivo e, se ha voglia di mettersi in gioco, deve proporre al proprio capo di svolgere task più sfidanti. L’aspetto più importante è però accettare i cambiamenti: la capacità di adattamento ci rende in grado di uscire dalla nostra comfort-zone».

Si ringrazia Martina Sangalli, studentessa CIMO – Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, per aver collaborato alla realizzazione e alla stesura di questo paper.

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